Sforzandomi di apparire calmo, dissi a Hetepamon: — Io servo gli dèi della mia lontanissima terra, che possono essere gli stessi che venerate qui in Egitto con nomi diversi.
Il grasso sacerdote chiuse gli occhi, come se avesse ancora paura di guardarmi. — Gli dèi hanno grandi poteri e possono agire molto al di là della nostra capacità di comprensione.
— Abbastanza vero — fui d’accordo, aggiungendo silenziosamente che un giorno li avrei compresi interamente, o sarei morto per sempre.
Hetepamon aprì gli occhi e tirò un grande, profondo respiro, pesantemente roco. — Come posso aiutarti, mio signore?
Guardai nei suoi occhi scurissimi e vidi vera paura, vero timore reverenziale. Non aveva discusso quando gli avevo detto che ero mortale, ma era tuttora convinto di aver ricevuto la visita del dio Osiride. Forse era così.
— Devo entrare nella grande piramide. Cerco… — Esitai. “Non ha senso fargli venire un infarto” pensai. — Cerco il mio destino.
— Sì — disse. — La piramide si trova davvero al centro esatto del mondo. Forse è il luogo del destino di tutti noi.
— Quando possiamo farlo?
Si morse il labbro inferiore per un momento. La sua rassomiglianza con Nekoptah mi metteva ancora leggermente a disagio.
— Entrare nella grande piramide significherebbe una cerimonia formale, una processione, preghiere e sacrifici che richiederebbero giorni o settimane di preparazione.
— Non c’è modo di farlo senza tutta questa cerimonia?
Annuì lentamente. — Sì, se lo desideri.
— Lo desidero.
Hatepamon chinò la testa in un tacito consenso. — Dovremo aspettare sino a dopo il tramonto del sole — disse.
Passammo la giornata guadagnando lentamente fiducia l’uno nell’altro. Pian piano superai la sensazione che lui fosse Nekoptah travestito, e, a poco a poco, Hetepamon si trovò più a suo agio, anche se ancora sospettava che io potessi essere un dio sotto mentite spoglie. Mi fece visitare il vasto tempio di Amon, dove i grandi corridoi e le loro colonne si levavano più in alto degli alberi, dove le storie della creazione, del diluvio e dei contatti tra uomini e dèi erano incise sui muri in immagini e geroglifici.
Una delle cose che mi convinse che il sacerdote era davvero un gemello di Nekoptah fu la sua assurda abitudine di masticare continuamente piccole noci scure. Ne portava una piccola sacca appesa alla cintura e vi infilava continuamente le dita simili a prosciutti. I suoi denti erano sgradevolmente macchiati, a forza di masticarle. Nekoptah, aveva altri vizi, ma questo no.
Hetepamon mi raccontò la storia di Osiride e della sua sposa-sorella Aset, che gli Achei chiamavano Iside. Osiride era tornato dagli inferi e dalla morte stessa per stare con lei, tanto era l’amore tra loro. Gli Egiziani vedevano Osiride nella scomparsa del sole, alla fine di ogni giorno, e nell’avvicendarsi delle stagioni durante l’anno: la morte che viene seguita inevitabilmente da una nuova vita.
Io ero morto molte volte, ed ero rinato sempre. Potevo riportare in vita la mia Atena? La leggenda non diceva nulla della sua fine.
— Questi non sono veri ritratti degli dèi — mi disse Hetepamon mentre ci trovavamo di fronte a un mastodontico bassorilievo che occupava un’intera parete del tempio principale. La sua voce rimbombava tra le ombre. — Le loro fattezze umane sono semplici forme idealizzate.
Io annuii mentre osservavo i ritratti sereni di dèi e, più in piccolo, di re morti da tempo.
Avvicinandosi tanto da farmi sentire l’odore delle noci nel suo alito, mi sussurrò con tono confidenziale: — Alcuni dei volti degli dèi, in realtà, sono stati disegnati prendendo a modello quelli dei re. Oggi lo considereremmo blasfemo, un tempo la gente credeva che gli stessi re fossero dèi.
— Adesso non lo credono più? — chiesi.
Scosse le guance grasse. — Il re è il rappresentante degli dèi sulla Terra, il mediatore tra gli dèi e gli uomini. Diventa un dio quando muore ed entra nell’altro mondo.
— Perché tuo fratello ti vuole in suo potere? — chiesi improvvisamente, seccamente, senza preamboli.
— Mio fratello… ? Cosa stai dicendo?
Gli mostrai l’anello di corniola di Nekoptah e dissi: — Mi ha ordinato di portarti alla capitale. Dubito che avesse in mente un incontro fraterno.
Hetepamon impallidì. La voce quasi gli mancò. — Lui… ti ha ordinato…
Io aggiunsi. — Va dicendo al re che vuoi reinstaurare l’eresia di Akhenaten.
Pensai che il sacerdote sarebbe caduto su uno dei suoi grassi fianchi, proprio lì, sul pavimento di pietra del tempio.
— Ma questo non è vero! Io sono fedele ad Amon e a tutti gli dèi!
— Nekoptah ti vede come una minaccia — dissi.
— Vuole affermare il culto di Ptah come il più importante di questa terra, e se stesso come uomo più potente del regno.
— Sì, ci credo. — Non dissi niente a proposito del principe Aramset.
— Ha sempre avuto cattivi sentimenti nei miei confronti — mormorò tristemente Hetepamon — ma non pensavo che mi odiasse tanto da volerla… fare finita con me.
— È molto ambizioso.
— E crudele. Sin da quando eravamo ragazzi, gli piaceva infliggere dolore.
— Controlla il re.
Si torse le mani grasse. — Allora sono perduto. Non posso aspettarmi nessuna pietà da parte sua. — Gettò uno sguardo circolare all’enorme tempio vuoto, come cercando aiuto dai bassorilievi di pietra degli dèi. — Tutti i sacerdoti di Amon passeranno sotto la sua spada. Non lascerà nessuno di noi, per timore che possiamo minacciare Ptah; e lui stesso.
Era davvero atterrito, e sembrava sul punto di piangere. Mi accorsi che non era né ambizioso né crudele. Come fosse diventato Sommo Sacerdote di Amon non lo sapevo, ma era chiaro che aveva poco potere e nessuna ambizione politica.
Adesso ero sicuro di potermi fidare di quell’uomo che somigliava tanto al mio nemico. Così lo tranquillizzai, dicendogli come Aramset stesse tornando alla capitale a capo di un piccolo esercito, deciso a proteggere suo padre e a prendere il posto che gli spettava come erede al trono.
— È così giovane — disse Hetepamon.
— Un principe del regno matura in fretta — risposi. — O non matura affatto. — Uscimmo dal grande tempio e salimmo per una lunga scalinata di pietra, con Hetepamon che ansimava e sudava, finché non raggiungemmo il tetto della costruzione. Da sotto un tendone ondeggiante, vidi distendersi la città di Menefer e, al di là del Nilo, la grande piramide luccicante di Khufu che si stagliava bianca e appuntita contro le rupi di granito.
Alcuni servi portarono tavoli e sedie, mentre altri arrivarono con carciofi e melanzane a fettine, carne fresca, vino gelato, fichi, datteri e meloni, su vassoi d’argento. Mi resi conto che non eravamo mai stati realmente soli, ma sempre tenuti d’occhio per tutto il nostro giro attraverso i templi. Ero sicuro, però, che nessuno aveva osato avvicinarsi abbastanza da poterci ascoltare.
Rimasi divertito nel vedere che Hetepamon mangiava frugalmente, quasi con delicatezza, mordicchiando qualche foglia di carciofo, evitando la carne, prendendo solo un fico o due. Ma doveva mangiare qualcosa di più di quelle noci che portava con sé, mi resi conto, per conservare quella stazza. Come molte persone molto in sovrappeso, probabilmente mangiava per lo più quando era solo.
Osservammo il sole calare e io pensai al loro Osiride, morto e risorto proprio come me.
Infine, quando gli ultimi raggi del tramonto svanirono sulle rupi e anche la punta luccicante della grande piramide divenne finalmente scura, Hetepamon sollevò la sua enorme mole dalla sedia.
— È ora — disse.
Sentii un tremito nelle viscere. — Sì. È ora.