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Scendemmo per la stessa scala, attraverso il tempio principale ormai buio, guidati solo da qualche candeliere sulle gigantesche colonne di pietra. Dietro la statua colossale di qualche dio, i cui lineamenti si perdevano tra le ombre, Hetepamon si avvicinò al muro e passò l’indice tozzo sulla linea di congiunzione di due pietre massicce.

La parete si aprì, mentre l’enorme pietra si sollevava senza far rumore, e noi entrammo silenziosamente nel vano segreto. Una piccola lampada ad olio bruciava fiocamente su un tavolo vicino all’ingresso. Hetepamon la prese e la pietra scivolò di nuovo al suo posto.

Seguii il grasso sacerdote in uno stretto corridoio, alla luce tremolante della lampada che lui teneva in mano.

— Stai attento qui — mi avvertì in un sussurro. — Tieniti sulla destra, contro il muro, o metterai il piede su un trabocchetto.

Seguii le sue istruzioni. Poi, più giù nel corridoio, dovemmo tenere la sinistra. Quindi scendemmo per una lunghissima rampa di scale. Sembrava interminabile. Potevo a malapena scorgere gli scalini alla fiamma instabile della lampada, ma sembravano appena consumati, anche se completamente coperti di polvere. La tromba delle scale si restrinse; le mie spalle sfioravano i muri. Il soffitto era così basso che dovevo tenere la testa chinata in avanti.

Hetepamon si fermò e io andai quasi a sbattergli contro.

— Qui diventa difficile. Dobbiamo saltare il prossimo gradino, toccare il quarto successivo, poi saltare quello dopo ancora. Hai capito?

— Se sbaglio?

Lasciò uscire un lungo sospiro. — Come minimo, l’intera scalinata si riempirà di sabbia. Ma ci potrebbero essere altre trappole di cui non sono a conoscenza; gli antichi costruttori erano molto accurati e molto infidi.

Mi assicurai di seguire le sue istruzioni al millimetro.

Infine arrivammo in fondo alla scala e imboccammo un corridoio leggermente più largo. Cominciavo a sentirmi sollevato. Il più era fatto. Nessun altro avvertimento su trabocchetti o scalini da evitare.

Ci fermammo, ed Hetepamon spinse una porta. Si aprì lentamente, cigolando. Passammo.

Improvvisamente una luce brillò tutt’intorno a noi, dolorosamente forte. Mi misi un braccio sugli occhi, aspettando di sentire la risata derisoria del Radioso.

Invece sentii la mano di Hetepamon che mi tirava. — Non aver paura, Orion. Siamo nella camera degli specchi. È per questo che non abbiamo potuto avvicinarci alla tomba fino a dopo il tramonto.

Abbassai il braccio e, strizzando gli occhi, vidi che ci trovavamo in una stanza completamente rivestita di specchi. Sulle pareti, sul pavimento, sul soffitto, nient’altro che specchi. E non erano piani, ma si piegavano in ogni sorta di strana angolazione, dappertutto tranne che in una specie di passaggio a zig-zag sul pavimento. La luce che mi aveva spaventato era semplicemente il riflesso della nostra modesta lampada, che mandava bagliori sfolgoranti da centinaia di sfaccettature.

Indicando verso l’alto, il grasso sacerdote disse: — Sopra di noi ci sono dei prismi che concentrano la luce del sole. Durante le ore di luce questa camera ucciderebbe chiunque vi entrasse.

Ancora con gli occhi semichiusi, lo seguii fino a un’altra porta cigolante, e di nuovo in uno stretto e buio corridoio.

— Cosa c’è ancora? — borbottai.

Lui rispose piano: — Oh, il peggio è passato. Adesso, non ci resta che arrampicarci su quella piccola scala e saremo nel tempio di Amon, proprio sotto la piramide. Da lì, c’è una lunga salita fino alla camera funeraria, ma non ci sono più trappole.

Non mi pareva vero.

Il tempio era una stanza minuscola, molto sotto il livello del terreno, grande appena abbastanza per un altare, qualche statua e alcune lampade. Tre delle pareti erano rozzamente scavate nella roccia viva; la quarta era coperta di vaghe incisioni. Il soffitto sembrava essere un solo enorme blocco di pietra. Potevo sentire il peso tremendo della massiccia piramide incombere sopra di noi, opprimente, spaventoso, come la mano di un gigante che mi spremeva l’aria dai polmoni. Un’alcova buia mascherava una rampa di scale quasi verticale che portava in alto, verso la camera del re.

Senza dire niente, Hetepamon sollevò la lampada sulla testa e si girò verso la parete istoriata.

L’indicò con la mano libera. — Osiride — sussurrò.

Era il mio ritratto. — E vicino c’era quello della mia Atena.

— Aset — sussurrai anch’io.

Lui annuì.

Così era vero. Eravamo stati entrambi in quella terra migliaia di anni prima, o anche di più. E lei era lì adesso, in attesa che la riportassi in vita. Lo sapevo. Le ero vicino. Il pensiero mi fece tremare ulteriormente.

— Io resterò qui, Orion, mentre tu sali nella tomba di Khufu — disse Hetepamon.

Lo sguardo che gli lanciai doveva essere crudelmente interrogativo.

— Non posso salire per quella scala ripida, Orion — si scusò frettolosamente. — Ti assicuro che non ci sono altri pericoli di cui preoccuparsi.

— Sei mai stato nella camera funeraria? — chiesi.

— Oh sì, tutti gli anni. — Precedette la domanda che gli avrei posto. — La processione entra nella piramide dalla facciata esterna, dove una pietra dotata di cardini funge da porta. La rampa che porta alla tomba è molto più comoda del passaggio che vedi. Nonostante questo — disse sorridendo — devo essere trasportato da otto schiavi molto forti.

Io annuii comprensivo.

— Ti aspetterò qui e pregherò Amon per il tuo destino, e per la salvezza del principe Aramset.

Lo ringraziai e, dopo aver acceso una delle lampade dell’altare con la sua, mi avviai per la ripida scala serpeggiante.

Ci impiegai credo più di un’ora anche se avevo perso il senso del tempo arrancando sugli scalini, girando in tondo ancora e ancora. I gradini sembravano tagliati direttamente nelle pareti, e alcuni erano più stretti delle fessure della roccia originaria. La mia lampada forniva una piccola sorgente di luce irregolare contro il buio pesto, e mentre salivo avevo la sensazione di non stare andando da nessuna parte, come se fossi stato sulla ruota di una mola, destinato ad arrampicarmi dolorosamente, penosamente, per sempre. Mi sentivo quasi privo di percezione sensoriale: nessun suono tranne quello del mio respiro e lo stropiccio dei miei stivali sui gradini di pietra; niente da vedere tranne i muri polverosi alla fioca luce della lampada. Il mondo esterno poteva essersi dissolto o trasformato in ghiaccio o bruciato sino a diventare un tizzone, e io non l’avrei mai saputo.

Ma continuai ad arrancare, e infine arrivai a destinazione.

Salii attraverso un buco del pavimento e mi ritrovai in una camera spaziosa. Un grande feretro di pietra sorreggeva un magnifico sarcofago, lungo almeno cinque metri, fatto di cipresso stupendamente lavorato e intarsiato d’avorio, oro, lapislazzuli, porfido, turchese e dio sa cos’altro. Splendidi manufatti riempivano la stanza: ciotole di grano, e vasi che, ne ero sicuro, erano pieni di ottimo vino e di acqua limpida. Probabilmente venivano sostituiti ogni anno durante la cerimonia di cui mi aveva detto Hetepamon. Attrezzi e armi erano allineati ordinatamente contro le pareti. Alcune scalinate conducevano in alto ad altre stanze. Tutto quello di cui il re aveva bisogno in vita era lì o nelle vicinanze, pronto perché potesse usarlo nell’altra vita.

Ma non c’era alcun segno del Radioso.

43

Davanti al sarcofago abbagliante di Khufu, circondato dagli oggetti più belli che mano umana avesse potuto fare, strinsi i pugni in un’ira impotente.

Lui non c’era! Mi aveva mentito!

Nella ricca camera funeraria non c’era né il Radioso né il corpo di Atena. Volevo urlare. Volevo spaccare tutto, aprire il sarcofago del re, buttare a terra l’intera piramide, pietra per pietra.