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“Chi ha ispirato le mie gesta eroiche?” mi chiesi. La figura dorata del mio sogno che chiamava se stesso Apollo? Ma da quello che avevano detto gli uomini dell’accampamento, Apollo appoggiava i Troiani in quella guerra, non gli Achei. Mi ritrovai a temere il sonno. Sapevo che una volta addormentato avrei dovuto affrontare di nuovo quel… dio. Non trovavo un’altra parola per lui.

Improvvisamente mi resi conto che c’era qualcuno in piedi davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi un uomo robusto, dal torace possente, con una scura barba brizzolata e uno sguardo sicuro negli occhi. Portava una pelle di lupo attorno alla testa e alle spalle. La pioggia ci picchiava sopra. Indossava una tunica lunga sino al ginocchio e una spada allacciata sul fianco. Schinieri e polpacci erano coperti di fango. I pugni, grandi come martelli, piantati sui fianchi.

— Sei tu quello di nome Orion? — gridò nella pioggia battente.

Io mi alzai in piedi e vidi che ero parecchi centimetri più alto di lui. Nonostante questo, non aveva l’aspetto di un uomo da poter prendere alla leggera.

— Sono Orion.

— Vieni con me — disse brusco, e cominciò a voltarsi.

— Dove?

Voltando la testa mi rispose: — il mio signore Ulisse vuole vedere che razza di uomo è riuscito a fermare il principe Ettore. Adesso muoviti!

Polete aggirò con me la prua della nave, tra i rovesci di pioggia e poi su per una scala di corda sino al ponte.

— Sapevo che Ulisse sarebbe stato l’unico abbastanza saggio da usarti — disse con voce stridula. — Lo sapevo!

5

— Quale dio servi? — chiese Ulisse. Mi trovavo alla presenza del re di Itaca, che sedeva su uno sgabello di legno, affiancato su entrambi i lati da altri nobili. Non sembrava molto alto; le sue gambe erano tozze ma molto muscolose. Aveva un torace enorme, largo e solido come quello di un uomo che ha nuotato ogni giorno sin da ragazzo. Le braccia erano forti e grosse. Portava sui polsi spesse bande di pelle, e al di sopra del gomito sinistro un bracciale di onice lucidato e di lapislazzuli che brillava persino nella penombra della tenda all’interno della nave. Bianche cicatrici di vecchie ferite risaltavano sulla pelle scura, dividendo i peli neri come sentieri in una foresta.

Aveva un taglio fresco sull’avambraccio sinistro, anche, rosso, da cui usciva ancora un po’ di sangue.

La pioggia batteva contro i teloni, appena qualche centimetro sopra la mia testa. La tenda odorava di cani, di muffa e di umidità. E di freddo. Ulisse portava una tunica senza maniche, ed era a gambe e piedi nudi, ma aveva un vello di pecora buttato sulle larghe spalle.

Sul viso, una folta barba con scuri peli arricciati. C’era solo una traccia di grigio in quella barba. Una pesante massa di riccioli gli scendeva sulle spalle e sulla fronte fin quasi a toccare le sopracciglia nere. Quegli occhi erano grigi come il mare, là fuori in quel pomeriggio piovoso, e sondavano, perquisivano, giudicavano.

Aveva posto la sua domanda nello stesso momento in cui Polete ed io eravamo stati fatti entrare nella sua tenda, senza nessun preliminare o saluto formale.

— Quale dio servi?

— Atena — risposi rapidamente. Non ero sicuro del perché avessi scelto la dea guerriera, tranne per il fatto che Polete aveva detto che favoriva gli Achei contro i Troiani.

Ulisse borbottò e mi fece segno di sedere sull’unico sgabello libero della tenda. Gli altri due uomini che gli sedevano ai lati erano vestiti in modo molto simile al suo. Uno sembrava circa della stessa età di Ulisse, l’altro molto più vecchio. Aveva i capelli e la barba completamente bianchi e le sue membra sembravano essersi ridotte a ossa e tendini. Era avvolto in un mantello blu.

Tutti avevano un aspetto stanco e provato dalla battaglia della mattina, anche se nessuno aveva ferite fresche come il loro re.

Ulisse sembrò notare Polete per la prima volta. — Lui chi è? — chiese indicandolo.

— Il mio amico — dissi io. — Il mio compagno e aiutante.

Lui annuì, accettando il cantastorie. Dietro Polete, appena dentro la tenda e al riparo dalla pioggia scrosciante, c’era l’ufficiale che ci aveva convocato a quell’udienza.

— Ci hai reso un grande servizio stamattina — disse Ulisse. — Un servizio simile deve essere ricompensato.

Il fragile vecchio alla sua destra parlò con una voce sorprendentemente forte e profonda. — Ci hanno detto che sei arrivato come thes a bordo della nave giunta l’altra notte. Eppure stamattina hai combattuto come un uomo nato e allevato da guerriero. Per gli dèi! Mi hai ricordato me stesso quando avevo la tua età! Non conoscevo assolutamente la paura, allora! Ero conosciuto sino a Micene e persino a Tebe! Lascia che te lo dica…

Ulisse sollevò la mano destra. — Per favore, Nestore, ti prego di astenerti dalle reminiscenze per il momento.

Il vecchio sembrò dispiaciuto, ma sprofondò di nuovo nel silenzio.

— Che ricompensa chiederesti? — mi disse Ulisse. — Se posso, sarò lieto di accordartela.

Pensai per mezzo momento soltanto, poi risposi: — Chiedo di divenire guerriero al servizio del Re di Itaca. — Poi, sentendo uno scalpiccio di piedi nudi dietro di me, aggiunsi: — E di avere il mio amico, qui, come mio servitore.

Per vari secondi Ulisse non disse niente, sebbene Nestore assentisse vigorosamente con la testa dalla bianca barba e il guerriero più giovane alla sinistra del re mi sorridesse.

— Siete entrambi thetes senza una casata? — chiese Ulisse.

— Sì.

Si strofinò la barba. Poi un lento sorriso gli si diffuse sul viso. — Allora benvenuti nella casa del re di Itaca. Il tuo desiderio è esaudito.

Non ero sicuro di quello che dovevo fare, finché non vidi Nestore corrugare leggermente la fronte e farmi segno con entrambe le mani, palmi in giù. Mi inginocchiai di fronte a Ulisse.

— Grazie, grande re — dissi, sperando che quello fosse il giusto grado di umiltà. — Ti servirò al meglio delle mie possibilità.

Ulisse tolse il bracciale dal suo bicipite e me lo strinse al braccio. — Alzati, Orion. Il tuo coraggio e la tua forza saranno una gradita aggiunta alle nostre milizie. — All’ufficiale all’entrata della tenda ordinò: — Antiloco, fai in modo che si procuri degli abiti decenti; e armi.

Poi mi fece un segno di congedo con il capo. Io mi voltai. Polete mi sorrideva raggiante. Antiloco, con il cappuccio di lupo ancora gocciolante, mi guardò come per misurarmi, non per i vestiti, ma come lottatore.

Mentre lasciavamo la tenda e uscivamo di nuovo nella pioggia scrosciante, potei sentire la voce vibrante di Nestore.

— Molto abile da parte tua, Ulisse! Portandolo fra la tua gente ti sei guadagnato il favore di Atena che lui serve. Io stesso non avrei potuto fare una mossa più saggia, anche se ai miei tempi ho dovuto prendere delle decisioni molto delicate, lascia che te lo dica. Ricordo quando i pirati Dardani razziavano la costa del mio regno e nessuno sembrava capace di fermarli, dopo che la flotta del re Minosse era stata distrutta dal grande maremoto. Allora, i pirati avevano catturato un mercantile che trasportava un carico di rame da Cipro. Una fortuna, valeva, perché sai che non si può fabbricare il bronzo senza il rame. Nessuno sapeva cosa fare! Il rame era…

La sua voce, pur forte com’era, fu infine sommersa dalla pioggia pesante e dal lamento del vento.

Antiloco ci fece oltrepassare varie imbarcazioni itacensi sino a una baracca di assi legate insieme e poi spalmate dello stesso catrame nero con cui erano state stuccate le navi. Era la costruzione più vasta che avessi visto nell’accampamento, grande abbastanza da contenere quasi due dozzine di uomini, calcolai approssimativamente. C’era solo una porta d’entrata, bassa e con un telone inchiodato sopra per tenere fuori la pioggia e il vento.