Invece rimasi semplicemente lì, muto come un qualunque animale, ingannato e sconfitto.
Ma la mia mente era al lavoro. Il Radioso aveva fatto di quella piramide la sua fortezza, proteggendola con energie che nemmeno gli altri Creatori potevano penetrare. Ci voleva un comune mortale, che entrasse fisicamente, attraverso i passaggi costruiti dall’uomo, contro il quale le barriere di energia non avrebbero funzionato.
Allora perché il Radioso la difendeva? Come copertura? Forse.
O forse la piramide era in realtà un punto di partenza per il vero luogo in cui si nascondeva. La stava proteggendo perché conteneva qualche indizio sulla sua reale posizione. Qualche indizio, o qualche dispositivo di trasferimento.
I Creatori non erano dèi. Non si muovevano da un punto del continuum all’altro per afflato mistico. Non generavano energia per forza di volontà divina. Usavano macchine, congegni, tecnologie che avevano del divino per la loro potenza, ma frutto di cervelli e mani umane, proprio come gli utensili e le armi di quella tomba.
Pensai tra me: “Se il Radioso ha nascosto una macchina del genere in questo mucchio di pietre, deve emettere un qualche tipo di energia. Posso percepirla?”.
Chiusi gli occhi e cercai di escludere la mia mente cosciente. Con uno sforzo di volontà che mi fece torcere le viscere, disinserii i cinque sensi normali: divenni cieco, sordo, totalmente solo in un universo di nulla.
Per quanto tempo rimasi in quello stato, non ne ho idea. Ma infine un filo sottile di sensibilità si fece strada nella mia coscienza. Un bagliore, un rivolo di calore, un sibilo debolissimo simile al ronzio di un’apparecchiatura elettrica in lontananza.
Aprii gli occhi molto lentamente e richiamai gli altri sensi, cautamente per non spezzare il legame con la fonte di energia che avevo scoperto. Mi diressi, quasi come un sonnambulo, verso un pannello scolpito nel muro. Si aprì alla mia pressione e rivelò un altro passaggio serpeggiante verso l’alto. Salii.
Attraversai numerose altre camere e percorsi oscuri corridoi, guidato solo dalla debole emissione.
E localizzai la fonte: una piccola stanza vicino all’estremità della piramide, così bassa e stretta che fui costretto a chinarmi per entrarci. La mia mano sollevata incontrò il metallo liscio; era caldo e vibrante di energià. La punta della piramide, di elettro: un buon conduttore di elettricità e, mi resi conto, di altre forme di energia.
Al centro della minuscola camera, occupandola quasi tutta, c’era una cupola di nero metallo opaco, abbandonata lì come l’uovo di qualche gigantesco uccello meccanico. Emetteva un ronzio. Toccai la sua liscia superficie. Era calda.
Sentii la mano leggermente appiccicaticcia mentre la tiravo indietro, come se avessi toccato della vernice non ancora asciutta. Toccai di nuovo la cupola; spinsi leggermente e sentii che cedeva. Premetti con più forza, e la mia mano sembrò penetrare la superficie, affondarci. Era fredda, dolorosamente fredda.
Ma non riuscii a ritirare la mano. Qualcosa dentro la cupola mi stava trascinando in avanti, risucchiandomi nel suo interno gelato. Gridai e lasciai cadere la lampada che ancora reggevo, mentre tutto il mio corpo annegava nel freddo mortale della cupola.
Riconobbi la morte, un alito che portava l’agonia a ogni mia cellula, a ogni nervo. Stavo cadendo, cadendo in un buio assoluto mentre il mio corpo si congelava e gli ultimi lampi di vita del mio cervello soccombevano al dolore e all’oscurità. I miei ultimi pensieri furono d’amore e di odio: amore per la mia Atena e odio per il Radioso, che mi aveva battuto ancora una volta.
Ma quando aprii gli occhi, ero sdraiato su un soffice prato. Un sole caldo splendeva su di me. Soffiava una piacevole brezza. O era il respiro dei miei stessi polmoni?
Mi misi a sedere. Il cuore mi batteva nel petto. I miei occhi osservarono. Quella non era la Terra. Il cielo era di un vivido color arancio. Brillavano due soli, uno grande abbastanza da coprire metà del cielo, l’altro come una capocchia di vivido diamante che sfavillava in trasparenza, dietro la distesa arancione del suo gonfio compagno. L’erba su cui ero seduto era di un cupo color mattone, sfumato di marrone nerastro. Il colore del sangue secco. Era spugnosa, cedevole, più simile a muffa o a carne che non all’erba vera. Scorsi delle colline in lontananza, alberi dalla forma strana, e un ruscello.
— Ci incontriamo di nuovo, Orion.
Mi voltai e vidi il Radioso ritto davanti a me. Saltando in piedi dissi: — Credevi di poterti nascondere?
— No, certamente no. Tu sei il mio Cacciatore. Sono stato io a darti questi istinti.
Portava una camicia dorata morbida e sciolta, con le maniche rigonfie, e un paio di pantaloni scuri che gli fasciavano la cintura e le gambe, infilate in stivali alti sino alla coscia. Sembrava più rilassato che mai, con un sorriso fiducioso, la folta criniera di capelli dorati scompigliata dal vento. Ma, quando lo guardai negli occhi fulvi, vidi strane luci, segni di emozioni e tensioni che stava cercando severamente di controllare.
— Ho consegnato Elena agli Egiziani. Ho fatto cadere le mura di Gerico per te. Agamennone, Ulisse e la maggior parte degli altri guerrieri achei sono stati spazzati via. Nuovi invasori stanno conquistando le loro terre. Hanno pagato per la caduta di Troia.
I suoi occhi luccicarono. — Ma tu no.
— Ho fatto quello che hai chiesto. Ora è il tuo turno di tenere fede alla tua parte di accordo.
— Un dio non fa accordi, Orion. Un dio ordina!
— Non sei un dio più di quanto lo sia io — dissi brusco. — Hai mezzi migliori, questo è tutto.
— Io ho una conoscenza migliore, creatura. Non confondere i giocattoli con il giocattolaio, o la sua sapienza.
— Forse è così — risposi.
— Forse? — Fece un sorriso tollerante. — Hai idea di dove sei, Orion? No, naturalmente no. Hai idea di dove conducano i miei piani? Come potresti?
— Non mi interessa…
— Non fa alcuna differenza che ti interessi o meno — disse, con gli occhi che lampeggiavano. — I miei piani proseguono nonostante le tue ridicole ire e i tuoi bronci. Persino nonostante l’opposizione degli altri Creatori.
— Stanno cercando di trovarti — dissi.
— Sì, naturalmente. Lo so. E ti hanno chiesto di aiutarli, giusto?
— Non l’ho fatto.
— No? — Divenne improvvisamente ironico, e mi guardò con diffidenza, quasi con rabbia.
— Ti ho servito fedelmente. In modo che tu riporti Atena alla vita.
— Fedelmente, sì. Lo so.
— Ho fatto quello che chiedevi — insistetti.
— Chiesto? Chiesto? Io non chiedo mai, Orion. Ti ho detto quello che doveva essere fatto. Mentre gli altri esitano e discutono e dibattono, io agisco. — Il suo respiro si fece più rapido, gli occhi presero una luce folle. — Non meritano di vivere, Orion. Io sono l’unico che sappia cosa fare, come proteggere il continuum dai suoi nemici. Non se ne rendono conto, ma in realtà servono il nemico. Quegli stupidi pazzi stanno lavorando per il nemico! Meritano di essere distrutti. Spazzati via. Completamente.
Lo fissai. Stava delirando.
— Sono l’unico degno di esistere! Le mie creature serviranno me e me solo. Gli altri saranno distrutti come meritano. Sarò il solo e il supremo! Sopra tutti gli altri! Per sempre!
Ero stanco delle sue declamazioni.
— Apollo, o qualunque sia il tuo nome, è ora che riporti alla vita Atena…
Mi guardò con gli occhi socchiusi. Più lucidamente, rispose: — Si chiama Anya.
— Anya — ricordai. — Anya.
— Ed è morta proprio del tutto, Orion. Non ci sarà nessuna resurrezione.
— Ma tu hai detto…
— Quello che ho detto non importa. È morta.
Le mie dita si contrassero. Lui mi fissò, e io sentii le forze che comandava invadermi, dominarmi, congelare il mio corpo nell’immobilità, anche se lui preferì tenere vigile la mia mente.