Ignorando la sua falsa domanda, mi rivolsi a suo marito. — E tu, Menelao. Hai fatto cadere la mura di Troia e hai attraversato mezzo mondo in cerca di questa donna; è tua, adesso, grazie al valore delle tue armi. Amala e proteggila. Dimentica il passato.
Menelao si drizzò in tutta la sua statura e rivolse a Elena uno sguardo da ragazzo innamorato.
— Pazzi! — ringhiò Nekoptah. — Vi farò uccidere tutti!
— I tuoi soldati non leveranno mai le spade contro un dio, grasso prete — gli dissi. — Che tu mi creda o meno, non lo faranno mai.
Sapeva che intendevo ucciderlo. I suoi minuscoli occhi da maiale guizzavano da una parte all’altra mentre mi avvicinavo.
Improvvisamente, Nekoptah agganciò un braccio al collo di Elena. Un piccolo pugnale gli spuntò miracolosamente nell’altra mano, e sfiorò il viso di lei.
— Morirà se non fate come dico — strillò.
Era troppo lontano perché potessi raggiungerlo prima che le tagliasse la gola come aveva fatto con il suo gemello. Menelao era impietrito vicino a loro, la lancia stretta nella mano destra.
— Uccidilo! — gli ordinò Nekoptah. — Infila la tua lancia nel suo cuore di cane.
— Non posso uccidere un dio.
— Non è un dio più di te o di me. Uccidilo, o lei morirà.
Menelao si girò verso di me e sollevò la lancia. Io rimasi immobile. Nei suoi occhi vidi confusione e paura, ma non odio, e nemmeno ira. Il viso di Nekoptah era una mappa confusa di rabbia, i suoi occhi bruciavano. Elena fissò suo marito, poi guardò me.
— Fai quello che devi, Menelao — dissi. — Salva tua moglie. Io sono morto molte volte. Una volta in più non mi spaventa.
Il re acheo sollevò la lunga lancia sopra la testa, la fece roteare e la conficcò nel collo lardoso del sacerdote. Nekoptah emise un rantolo soffocato, sì irrigidì e il coltello gli cadde dalle dita intorpidite. Lasciò andare Elena mentre cercava di afferrare la lancia con l’altra mano.
Con il viso contorto in un cipiglio feroce, Menelao sfilò la lancia dal collo di Nekoptah che rotolò sul pavimento di pietra, mentre il sangue sprizzava sul suo corpo enorme.
Buttando la spada per terra, Menelao corse da Elena. Lei gli si gettò tra le braccia, felice, e posò la testa sul suo petto.
— Mi hai salvato — disse. — Mi hai salvato da quell’orribile mostro.
Menelao sorrise. Nella luce tremolante delle lampade, mi sembrò che il suo viso bruno arrossisse leggermente.
— Hai agito bene — gli dissi. — Ci voleva coraggio.
Si passò un dito nella barba scura, un gesto che lo fece apparire quasi timido. — Non sono estraneo alla lotta, mio signore. Ho visto molte volte cosa succede quando una lancia colpisce la carne di un uomo. Il corpo si congela per lo shock.
— Hai liberato questo regno dal suo più grande pericolo. Prendi tua moglie e ritorna alla capitale. Servi bene il principe Aramset: il peso del regno è tutto sulle sue spalle, adesso. E un giorno, sarà re di fatto, oltre che di diritto.
Con il braccio attorno alle spalle di Elena, Menelao si diresse alla porta. Lei si voltò per salutarmi un’ultima volta.
— Orion, dietro di te!
Io mi voltai e vidi Nekoptah in piedi, sanguinante, barcollante, che teneva la lancia di Menelao con entrambe le mani. Pur vacillando diresse la punta insanguinata fino al mio petto, con tutto il suo peso.
— Non… un dio — ansimò. Poi cadde a faccia in giù, finalmente morto.
Il dolore improvviso invase il mio cervello degli sgraditi ricordi di altre morti, di altre agonie. Rimasi pietrificato, con la lancia che mi usciva dal costato e ogni nervo del mio corpo che gridava di dolore. Sentii il cuore che si sforzava di pompare sangue, nonostante la lacerazione del bronzo affilato.
Caddi in ginocchio, e vidi il mio stesso sangue gocciolare sul pavimento. Elena e Menelao se ne stavano immobili, fissandomi orripilati.
— Andate — dissi loro. Voleva essere un ordine. Venne fuori come un sussurro.
Elena mosse un passo verso di me.
— Andate! — dissi con più vigore, ma lo sforzo mi riempì di onde vertiginose. — Lasciatemi! Fate come vi dico!
Menelao l’attirò di nuovo a sé, e insieme corsero fuori nella notte, verso la capitale e una vita che sperai serena, forse anche felice.
Io mi sedetti pesantemente, senza più forze, chinandomi in avanti per quanto me lo consentiva la lancia, bloccata dall’altra parte dal cadavere obeso di Nekoptah.
La fine definitiva, pensai.
— Se non posso essere con te in vita, Anya, allora ti raggiungerò nella morte — dissi a voce alta.
Caddi sulla schiena mentre le ombre nere dell’incoscienza turbinavano e si riunivano intorno a me.
46
Giacevo sulla schiena, in attesa della morte finale, sapendo che né il Radioso né nessuno degli altri Creatori mi avrebbero resuscitato. Né avrebbero resuscitato Anya. Sapevo che erano felici di disfarsi di entrambi.
Un’ondata di rabbia superò il dolore che pulsava nel mio corpo. Stavo accettando la loro vittoria su di me, su di lei, la loro vittoria su di noi. Stavano teneramente curando il Radioso per riportarlo alla sanità mentale, in modo da continuare a dominare la razza umana e il suo destino finale.
Ricordi di altre vite, di altre morti, mi sommersero. Cominciai a capire cosa mi avevano fatto e, soprattutto, come l’avevano fatto.
Con l’ultimo rimasuglio di energia sollevai lentamente le braccia e afferrai la lancia affondata nel mio petto. Immerso in un sudore freddo, chiusi le cellule sensoriali che urlavano di dolore e ordinai alla mia carne d’ignorare l’agonia che mi bruciava dentro. Gli uncini insanguinati strapparono grossi lembi di me, ma non aveva importanza. Li strappai via e lasciai l’asta cadere con un tonfo sul pavimento.
Il mondo girava vorticosamente, adesso. I muri del tempio mandavano bagliori, con gli affreschi e le incisioni che danzavano e ondeggiavano come creature vive, in una danza complicata e lugubre.
Mi tirai su appoggiandomi ai gomiti e guardai le pareti. Vidi il mio ritratto e quello di Anya, l’uno di fronte all’altro, che traballavano, si muovevano e sparivano alla mia vista.
“Il segreto del tempo è che scorre come un oceano, in enormi correnti e maree. Gli esseri umani vedono il tempo come un fiume, come il Nilo, che si muove sempre in modo lineare, da qui a lì.” Ma nelle molte vite che avevo vissuto, io avevo imparato come navigare su quel mare.
Ci voleva energia per muoversi attraverso il tempo. Ma l’universo era pieno di energia, immerso com’era nella radiante abbondanza d’innumerevoli stelle. I Creatori sapevano come utilizzarla, e il ricordo delle loro azioni insegnò anche a me come fare.
Le pareti del tempio di Osiride si fecero trasparenti ai miei occhi, ma non scomparvero. Le incisioni divennero confuse. Le immagini danzanti, baluginanti, si dissolsero lentamente, finché i muri restarono lisci e nudi, come appena costruiti.
Mi alzai in piedi. La mia ferita non c’era più. Esisteva in un altro tempo, a migliaia d’anni di distanza.
Dalla porta aperta non vidi il cortile con il suo colonnato ma un giardino rigoglioso dove gli alberi da frutta curvavano i rami carichi sul terreno erboso, e i fiori schiudevano i loro petali colorati come primo benvenuto ai raggi del sole mattutino.
Il tempio in cui mi trovavo era piccolo, semplice, praticamente privo di decorazioni. Un rozzo altare di pietra era accostato a una parete, con una sola, piccola statua in cima. Rappresentava un uomo con la testa di un animale che non riuscii a riconoscere: un becco ricurvo e appuntito, quasi come quello di un falco, ma nient’altro, nei tratti, ricordava un uccello.
Non aveva importanza. Vidi che c’era un’altra apertura sulla parete opposta, e che portava a un sacrario più piccolo e più interno. Era buio, ma vi entrai senza esitare.