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All’interno, il capanno era una combinazione di magazzino e armeria che fece fischiare Polete di meraviglia. C’erano i carri, rovesciati, con le ruote per aria, mucchi di elmi e corazze ordinatamente accatastati lungo una delle pareti, rastrelliere di lance, spade e archi in fila su un’altra, e ceste piene di indumenti e coperte lungo la parete posteriore.

— Quanta roba — disse Polete ammirato.

Antiloco, che non era molto dotato di senso dell’umorismo, sogghignò. — Sono le spoglie degli uccisi.

Polete annuì e sussurrò: — Così tante.

Un vecchio rugoso si fece avanti sul pavimento sabbioso da dietro un tavolo pieno di tavolette d’argilla.

— Cosa c’è adesso? Non ho già abbastanza da fare senza che tu mi porti degli estranei? — si lamentò. Era un vecchio scontroso, magro e con un’espressione acida, le mani nodose e contorte come artigli, la schiena curva.

— Ho uno nuovo per te, scriba. Il mio signore Ulisse vuole che sia propriamente equipaggiato. — E con questo, Antiloco si voltò e sparì attraverso la bassa apertura del capannone.

Lo scriba avanzò trascinando i piedi arrivando abbastanza vicino da toccarmi, e mi scrutò con gli occhi socchiusi. — Grande come un toro cretese! Come ci si aspetta che io trovi dei vestiti adatti ad uno della tua taglia?

Borbottò e mugugnò mentre conduceva Polete e me dietro tavoli coperti di corazze di bronzo, placche per le braccia, schinieri, ed elmi piumati. Io mi fermai e presi un elmo.

— Quello no! — strillò lo scriba. — Questi non sono per quelli come te!

Affondò una delle sue mani simili ad artigli nel mio avambraccio e mi trascinò verso un mucchio di indumenti buttati per terra vicino all’entrata del capannone.

— Ecco — disse. — Guarda cosa riesci a trovare tra questi.

Mi ci volle un po’, ma infine mi infilai una tunica di lino macchiata, un gonnellino di pelle che mi arrivava alle ginocchia e un corpetto di pelle senza maniche che non mi era tanto stretto di spalle da impedirmi i movimenti. Mentre lo scriba aggrottava le sopracciglia e borbottava, mi accertai che Polete trovasse una tunica e una camicia di lana. Come armi presi una semplice spada corta e mi legai un pugnale alla coscia destra, sotto il gonnellino. Non avevano metalli preziosi o gemme nell’impugnatura, anche se la traversa di bronzo della spada aveva un complicato disegno a intaglio.

Lo scriba non riuscì a trovare nessun tipo di elmo che mi andasse bene, così infine ci accordammo su un mantello con un cappuccio di maglia di bronzo. Sandali e schinieri con borchie di bronzo completarono il mio abbigliamento, anche se le dita dei piedi mi sporgevano notevolmente oltre il bordo dei sandali.

Lo scriba oppose una violenta resistenza, ma io insistetti nel prendere due coperte per ciascuno. Strillò e discusse e minacciò che avrebbe fatto chiamare il re in persona per dirgli che razza di sprecone fossi. Fu solo quando lo sollevai da terra afferrandolo con una sola mano che si azzittì e mi lasciò prendere le coperte. Ma il suo cipiglio avrebbe fatto coagulare il latte.

Quando lasciammo il capannone la pioggia era cessata e il sole che calava a occidente stava rapidamente asciugando la spiaggia. Polete tornò verso il fuoco, dall’uomo con il quale avevamo diviso il pasto di mezzogiorno. Mangiammo di nuovo, bevemmo vino e stendemmo le coperte che c’eravamo appena procurati per prepararci a dormire.

Allora Polete cadde sulle sue ginocchia ossute e mi afferrò la mano destra con entrambe le sue, tenendola stretta, con una forza che non avrei mai immaginato in lui.

— Orion, mio padrone, mi hai salvato la vita due volte, oggi.

Io volevo liberare la mano.

— Hai salvato l’intero accampamento dalla lancia di Ettore e in più mi hai liberato da una vita di miseria e di vergogna. Ti servirò sempre, Orion. Ti sarò sempre grato per aver mostrato una pietà così grande nei confronti di un povero vecchio cantastorie.

Mi baciò la mano. Mi chinai e lo sollevai prendendolo per le fragili spalle.

— Povero vecchio ciarlone — dissi piano — sei il primo uomo che abbia mai visto tanto grato di diventare schiavo.

— Il tuo schiavo, Orion — mi corresse lui. — Sono felice di esserlo.

Io scossi la testa, incerto su cosa fare o dire. Infine borbottai: — Be’, dormi un po’.

— Sì. Certo. Che Phantasos possa concederti sogni lieti.

Io non volevo chiudere gli occhi. Non volevo sognare il Creatore che chiamava se stesso Apollo, sempre che il mio incontro con lui potesse essere chiamato sogno.

Mi sdraiai sulla schiena fissando il nero trapunto di stelle, chiedendomi verso quale di quelle la nostra nave stesse allora viaggiando, e se la luce della sua esplosione sarebbe stata mai vista nei cieli notturni della Terra. Vidi di nuovo il viso di lei, bello più di quanto si potesse credere, con i capelli neri che brillavano, gli occhi grigi luccicanti di desiderio.

L’aveva uccisa lui, lo sapevo. Il Radioso. Apollo. L’aveva uccisa e ne dava a me la colpa. Aveva ucciso lei ed esiliato me in quel tempo primitivo. L’aveva uccisa, ma aveva salvato me per il suo personale divertimento.

— Orion? — sussurrò una voce.

Mi tirai su a sedere e automaticamente allungai una mano verso la spada che si trovava per terra vicino a me.

— Il re ti vuole. Era Antiloco, in ginocchio al mio fianco.

Saltai in piedi, afferrando la spada. Era notte fonda, e la luce del fuoco morente era appena sufficiente perché potessi riconoscere il viso dell’uomo.

— È meglio che porti l’elmo, se ne hai uno — disse Antiloco.

Mi chinai e presi il mantello di maglia di metallo. Polete aprì gli occhi.

— Il re vuole parlarmi — dissi al vecchio. — Torna a dormire.

Lui sorrise e si rannicchiò felice nelle coperte.

Io seguii Antiloco tra i corpi addormentati dei nostri compagni sino alla prua della nave di Ulisse.

Come sospettavo, il re era molto più basso di me. Il pennacchio del suo elmo mi arrivava a malapena al mento. Mi fece un cenno di saluto con il capo e disse semplicemente: — Seguimi, Orion.

Tutti e tre camminammo silenziosamente nell’accampamento addormentato sino alla cima del bastione, non lontano dalla porta dove io mi ero guadagnato il loro rispetto quella mattina. C’erano soldati di guardia lassù, con le lunghe lance strette in mano che scrutavano nervosamente il buio. Al di là dell’ombra color inchiostro della trincea la pianura era punteggiata di fuochi troiani.

Ulisse emise un sospiro che sembrò spaccargli il torace. — Il principe Ettore occupa la pianura, come puoi vedere. Domani i suoi eserciti distruggeranno le fortificazioni e tenteranno di irrompere nel nostro accampamento e bruciare le nostre navi.

— Possiamo trattenerli? — chiesi.

— Decideranno gli dèi, una volta che il sole sarà sorto.

Io non dissi nulla. Sospettavo che Ulisse stesse cercando di escogitare un piano che influenzasse gli dèi in suo favore.

Una forte voce da tenore chiamò dal buio sotto di noi. — Ulisse, figlio di Laerte, stai contando i fuochi troiani?

Ulisse sorrise cupamente. — No, Grande Aiace. Sono troppi perché qualunque uomo riesca a contarli.

Mi fece un cenno e scendemmo di nuovo nell’accampamento. Aiace era davvero un gigante tra quegli uomini. Torreggiava su di loro e superava persino me di un centimetro o due. Aveva anche le spalle larghe e le sue braccia erano grosse come tronchi di giovani alberi. Stava a testa scoperta sotto le stelle con indosso soltanto una tunica e una veste di pelle. Il suo viso era largo, con gli zigomi alti e un piccolo naso schiacciato. La sua barba era rada, quasi stentata, non fitta e riccioluta come quella di Ulisse e degli altri condottieri. Con un po’ di sorpresa mi accorsi che il Grande Aiace era molto giovane, e probabilmente non doveva avere più di diciannove o vent’anni.