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Guardando il ponte, misurò a occhio la distanza fra sé e il parapetto. All'incirca sei metri. Troppi da percorrere senza copertura.

Trasse un profondo respiro e prese una decisione. Si strappò di dosso la camicia e la lanciò sul ponte alla sua destra. Mentre Pickering la crivellava di proiettili, balzò a sinistra, giù per il ponte inclinato. Con un salto disperato superò il parapetto e si tuffò oltre la poppa della nave descrivendo un arco per aria. I proiettili sibilarono vicini. Sapeva che anche una sola scalfittura lo avrebbe trasformato, in un istante, in un banchetto per gli squali.

Rachel Sexton si sentiva un animale in gabbia. Aveva provato e riprovato ad aprire il portello, ma senza fortuna. Poteva percepire l'appesantimento del batiscafo, mentre, sotto di lei, un serbatoio si stava riempiendo d'acqua. L'oscurità dell'oceano avanzava centimetro dopo centimetro, fuori dalla cupola, come un sipario nero capovolto.

Al di là della parte inferiore della cupola scorgeva il vuoto dell'oceano, un sepolcro buio che minacciava di inghiottirla viva. Afferrò la maniglia del portello e cercò ancora una volta di smuoverla. Niente. I suoi polmoni erano in affanno. L'acre puzzo di anidride carbonica le penetrò nelle narici. Un solo pensiero ossessivo.

"Morirò soffocata, da sola."

Esaminò il pannello di controllo e i comandi del Triton in cerca di qualcosa che potesse aiutarla, ma tutte le spie erano spente. Niente elettricità. Era chiusa in un'inerte bara d'acciaio che sprofondava verso il fondo dell'oceano.

Il gorgoglio nelle casse di bilanciamento adesso sembrava più forte, e il livello dell'acqua salì verso il bordo superiore della cupola di perspex. In lontananza, oltre la piatta distesa senza fine, una striscia rossa si allargava lentamente sull'orizzonte. L'alba. Rachel tremò al pensiero che quella potesse essere l'ultima luce che vedeva. Chiuse gli occhi cercando di arrestare il destino e sentì riaffiorare alla mente le immagini terrificanti della sua infanzia.

Il ghiaccio cedeva. Lei scivolava sott'acqua.

Senza fiato. Incapace di tornare in superficie, affondava.

Le urla di sua madre: «Rachel! Rachel!».

Dei colpi sul batiscafo la scossero dal delirio. Aprì gli occhi.

«Rachel!» La voce era attutita. Nel buio, un volto spettrale apparve al finestrino a testa in giù in un turbinio di capelli scuri.

Rachel riuscì a malapena a riconoscerlo. «Michael!»

Tolland affiorò, espirando con sollievo nel vedere che Rachel si muoveva dentro il battello. "È viva." Con poche energiche bracciate nella corrente calda e greve raggiunse il retro del batiscafo e si sollevò sulla piattaforma del motore, ormai sommersa. Afferrò la maniglia rotonda del portello, stando basso per tenersi fuori dalla portata del mitra di Pickering.

Lo scafo del Triton era ormai quasi interamente sommerso. Tolland sapeva che avrebbe dovuto agire alla svelta. Gli rimaneva un margine di una trentina di centimetri, che stava riducendosi rapidamente. Aprire il boccaporto sott'acqua avrebbe significato far allagare l'abitacolo, intrappolando Rachel e mandando il Triton in caduta libera verso il fondale.

«Ora o mai più» ansimò, afferrando l'anello e cercando di ruotarlo in senso antiorario. Niente. Provò di nuovo, con tutte le sue forze, ma il portello rifiutò di cedere.

Sentì Rachel, dall'altra parte del vetro. La sua voce era soffocata, ma vi si avvertiva il terrore. «Ho provato!» gridava. «Non riesco a girarlo!»

L'acqua lambiva ormai il coperchio. «Proviamo a girarlo insieme! Per te è in senso orario!» le urlò, benché sapesse che il senso era chiaramente indicato. «Okay, gira!»

Tolland si puntellò contro le bombole d'aria di bilanciamento e lottò con tutte le sue forze. Sentiva Rachel, sotto di lui, fare altrettanto. Il meccanismo ruotò di poco più di un centimetro, poi si bloccò con uno scricchiolio.

Tolland capì: il portello non si era assestato nell'alloggiamento e si era bloccato, come il coperchio di un barattolo male avvitato. Benché la guarnizione di gomma fosse a posto, le cerniere erano piegate. Ci sarebbe voluta una fiamma ossidrica.

Quando la cupola del batiscafo affondò sotto la superficie, Tolland fu sopraffatto dalla paura. Rachel Sexton non ce l'avrebbe fatta a uscire dal Triton.

Seicento metri più in basso, la fusoliera accartocciata e ancora carica di munizioni del Kiowa affondava rapidamente, prigioniera della gravità e del risucchio dell'impetuoso vortice sottomarino. Nell'abitacolo, il corpo inerte di Delta-Uno era sfigurato dalla pressione schiacciante.

L'elicottero, con i missili Hellfire ancora al loro posto, scendeva a spirale verso la cupola di magma che lo aspettava come una strana e incandescente piattaforma d'atterraggio. Sotto una crosta spessa solo tre metri, un globo di lava sobbolliva a mille gradi centigradi: un vulcano pronto a esplodere.

128

"Non lasciare che il batiscafo affondi!"

L'acqua ormai gli arrivava alle ginocchia. In piedi sulla cofanatura del motore, Tolland si scervellava per trovare il modo di liberare Rachel. Si voltò verso la Goya, chiedendosi se non ci fosse un modo per collegare un verricello al Triton, così da mantenerlo in superficie. Impossibile. La nave era a quasi cinquanta metri, ormai, e Pickering li guardava dall'alto del ponte, come un imperatore romano che dal suo posto privilegiato al Colosseo assista a uno spettacolo sanguinario.

"Prova a riflettere!" si impose Tolland. "Perché sta affondando?"

La fisica del galleggiamento, purtroppo, era spietatamente chiara: i serbatoi della zavorra venivano riempiti alternativamente di acqua o di aria, a seconda che si volesse fare immergere o emergere il batiscafo. Evidentemente, le casse si stavano allagando.

"Ma non dovrebbero!"

I serbatoi di bilanciamento dei sommergibili sono dotati di due serie di valvole, in alto e in basso. Le valvole inferiori, sempre aperte, sono chiamate "di allagamento", mentre quelle superiori, dette "di sfiato", vengono aperte solo per scaricare l'aria e permettere all'acqua di entrare.

Forse, per qualche ragione, gli sfiatatoi erano aperti. Tolland non riusciva a spiegarsene il perché. In precario equilibrio sulla piattaforma del motore tastò uno dei più piccoli serbatoi di zavorra, ormai sommersi. Le valvole di sfiato erano chiuse, ma le sue dita trovarono dell'altro.

Fori di proiettile.

"Merda!" Il Triton era stato crivellato di pallottole quando Rachel vi era saltata dentro. Tolland si tuffò immediatamente e nuotò sotto il batiscafo, passando le dita sulla superficie della più importante cassa di zavorra, quella di immersione rapida. Gli inglesi la chiamavano "il rapido per il Sud" e i tedeschi "le scarpe di piombo". In entrambi i casi, il significato era lampante: quando era piena, la cassa faceva inabissare il batiscafo.

Sul fianco della cassa, le sue dita trovarono decine di buchi.

Sentiva l'acqua entrare a fiotti. Senza che lui potesse impedirlo, il Triton era in procinto di affondare.

Il batiscafo era, adesso, a un metro di profondità. Verso prua, Tolland accostò il volto alla cupola e scrutò all'interno. Rachel gridava disperata, picchiando sul perspex. La sua paura lo fece sentire impotente. Si ritrovò per un istante in un freddo ospedale, al capezzale della donna che amava, conscio di non poter fare niente per aiutarla. Sospeso nell'acqua, vicino al batiscafo che affondava, Tolland pensò che non lo avrebbe sopportato. Non una seconda volta. "Sei un sopravvissuto" gli aveva detto Celia, poco prima di morire. Ma lui non voleva sopravvivere da solo… di nuovo.

I polmoni gli dolevano per la mancanza d'aria, ma rimase con lei. Ogni volta che il pugno di Rachel colpiva il perspex, Tolland sentiva l'aria salire gorgogliando in superficie, e il battello sembrava affondare di più. Rachel gridò qualcosa a proposito dell'acqua che entrava dalla montatura della cupola.