Sconcertato, rimase a guardare Rachel che si sollevava dall'acqua.
Sulle loro teste, un Osprey della guardia costiera, un convertiplano a rotori basculanti, stava issando Rachel a bordo con un verricello. Venti minuti prima, i guardacoste avevano ricevuto la notizia di un'esplosione al largo. Avendo perso le tracce del Dolphin, che doveva trovarsi sulla zona, avevano temuto una disgrazia. Inserite nel loro sistema di navigazione le ultime coordinate note dell'elicottero, si erano diretti sul luogo guidati da una vaga speranza. A circa un chilometro dalla Goya illuminata, avevano avvistato alcuni rottami in fiamme, alla deriva nella corrente, che sembravano appartenere a un motoscafo. In mare, vicino al relitto, un uomo agitava le braccia freneticamente. Lo avevano issato a bordo. Era completamente nudo, a parte la fasciatura di nastro adesivo che gli copriva una gamba.
Esausto, Tolland rivolse lo sguardo al ventre del rombante velivolo. Dall'alto, raffiche di vento assordanti, create dalle grandi eliche orizzontali, investivano ogni cosa. Quando Rachel salì appesa al cavo, numerose paia di mani la sollevarono nella fusoliera per trarla in salvo. Accanto al portello, Tolland scorse la figura familiare di un uomo mezzo nudo accovacciato.
"Corky?" Si sentì riempire di entusiasmo. "È vivo!"
Immediatamente, l'imbracatura calò di nuovo dal cielo e atterrò a tre metri di distanza. Tolland avrebbe voluto raggiungerla a nuoto, ma avvertiva già la sensazione di risucchio del pennacchio. L'implacabile stretta del mare lo aveva agguantato, rifiutando di mollarlo.
La corrente lo trascinava sott'acqua. Lottò per rimanere in superficie, fino allo stremo. "Sei un sopravvissuto" gli sussurrava una voce. Scalciò con le gambe, annaspando per risalire.
Quando riaffiorò nel vento battente, l'imbracatura era ancora fuori portata. La corrente lo stava trascinando lontano. Guardò in alto, nel vortice turbinoso di vento e rumore, e vide Rachel che lo fissava, esortandolo con gli occhi a raggiungerla.
Con quattro potenti bracciate riuscì ad arrivare all'imbracatura. Con l'ultimo briciolo di forze, infilò il braccio e la testa nell'anello, poi crollò.
Di colpo, l'oceano sembrò sprofondare.
Tolland vide sotto di sé il vasto gorgo spalancarsi. Il megapennacchio aveva infine raggiunto la superficie.
William Pickering, in piedi sul ponte della Goya, guardava con stupore lo spettacolo che si svolgeva tutt'intorno a lui. A dritta della nave, verso poppa, un'enorme depressione, come un bacino, si stava formando sulla superficie dell'oceano. Il gorgo, in rapida espansione, era già largo centinaia di metri. Il mare vi si avvitava dentro, scorrendo lungo l'orlo con sinistra condiscendenza. Tutt'intorno, un gemito gutturale echeggiava dall'abisso. Con la mente svuotata, Pickering fissava la voragine che si espandeva verso di lui come la bocca spalancata di qualche mitica divinità affamata di sacrifici.
"Sto sognando" pensò.
Improvvisamente, con un sibilo esplosivo che frantumò i finestrini della plancia della nave, un imponente pennacchio di vapore si levò verso il cielo. Un geyser colossale salì in alto, con un cupo boato, e la sua sommità si perse nel cielo rannuvolato.
Istantaneamente, le pareti del gorgo divennero più ripide e il perimetro cominciò a espandersi con crescente velocità, divorando la superficie dell'oceano. La poppa della Goya ruotò bruscamente verso la voragine in espansione. Pickering perse l'equilibrio e cadde in ginocchio. Come un bambino di fronte a Dio, guardò dentro l'abisso.
I suoi ultimi pensieri li rivolse alla figlia, Diana. Pregò che al momento della morte non avesse conosciuto una paura così sconvolgente.
L'onda d'urto provocata dalla fuga di vapore spinse l'Osprey su un fianco. Tolland e Rachel si sostennero a vicenda, mentre il pilota ristabiliva l'assetto, virando basso sopra la Goya, ormai condannata.
Guardando fuori, riuscivano ancora a vedere Pickering — il Quacchero — inginocchiato, in giacca e cravatta nere, vicino al parapetto superiore della nave.
La poppa ondeggiò sull'orlo del gigantesco vortice, poi la catena dell'ancora finalmente cedette. Con la prua fieramente lanciata nell'aria, la Goya sparì all'indietro, oltre il bordo liquido, risucchiata dal ripido gorgo vortìcante. Aveva le luci ancora accese quando sparì.
131
L'aria del mattino era limpida e frizzante.
Una lieve brezza creava mulinelli di foglie alla base del Washington Monument, nella capitale. Il più grande obelisco del mondo di solito si risvegliava con la sua immagine serena rispecchiata nella Reflectìng Pool, invece quel giorno ai suoi piedi sgomitavano molti giornalisti in ansiosa attesa.
Il senatore Sedgewick Sexton scese dalla limousine. Si sentiva più grande della stessa Washington mentre come un leone si avviava a grandi passi verso l'area riservata alla stampa, alla base del monumento. Aveva invitato le dieci maggiori reti radiotelevisive del paese, preannunciando il più grande scandalo dell'ultimo decennio.
"Niente attira gli avvoltoi come la puzza di carogna" si disse.
Stringeva la pila di buste di carta telata bianca, ciascuna con le sue cifre in rilievo sull'elegante sigillo di cera.
Se è vero che l'informazione può essere un'arma, Sexton aveva tra le mani un ordigno nucleare.
Si sentì inebriato, compiaciuto del fatto che il suo palcoscenico improvvisato disponesse di due "quinte", grandi pannelli eretti ai lati del podio come due tende blu: un vecchio trucco di Ronald Reagan per assicurarsi che la sua figura risaltasse contro qualunque sfondo.
Sexton salì sul palco da destra e si presentò a passo deciso da dietro il séparé, come un attore all'ingresso in scena. I cronisti presero velocemente posto nelle file di sedie pieghevoli rivolte verso il podio. A est, il sole che sorgeva sopra la cupola del Campidoglio proiettava una luce dorata sul senatore, conferendogli un'aura celestiale.
"Un giorno perfetto per diventare l'uomo più potente del mondo."
«Buongiorno, signore e signori» esordì, posando le buste sul leggio di fronte a sé. «Cercherò di essere rapido e indolore. Ciò che sto per rivelarvi è, francamente, molto inquietante. Queste buste contengono le prove di un inganno concepito ai più alti livelli del governo. Mi spiace dover dire che il presidente mi ha telefonato, mezz'ora fa, supplicandomi — sì, supplicandomi — di non rendere di dominio pubblico queste informazioni.» Scosse la testa, costernato. «Ma io sono un uomo che crede nella verità, per quanto dolorosa possa essere.»
Fece una pausa e, per accendere la curiosità degli intervenuti, sollevò in alto le buste. I cronisti le seguirono con gli occhi, come cani che sbavano pregustando qualche leccornia sconosciuta.
Il presidente aveva telefonato a Sexton mezz'ora prima per spiegargli ogni cosa. Rachel era al sicuro a bordo di un aereo, e le aveva parlato; inoltre, per quanto incredibile, la Casa Bianca e la NASA erano state solo figure marginali nell'affare del meteorite, una messinscena architettata da William Pickering.
"Non che abbia importanza" pensò Sexton. "Zach Herney cadrà lo stesso. E si farà molto male."
Avrebbe voluto essere una mosca sul muro della Casa Bianca per vedere la faccia del presidente, quando si fosse reso conto che lui stava per rivelare tutto. Secondo gli accordi, il senatore avrebbe dovuto incontrare il presidente Herney in quel preciso istante alla Casa Bianca per discutere come comunicare alla gente la verità sul meteorite. Invece, in quel preciso istante Herney era probabilmente incollato al televisore, profondamente sconvolto nell'apprendere che la Casa Bianca non avrebbe potuto fare nulla per fermare la mano del destino.
«Amici miei» disse Sexton, lasciando che i suoi occhi stabilissero un contatto con la folla. «Ho soppesato attentamente la questione e valutato la possibilità di onorare il desiderio del presidente di mantenere segreti questi dati; ma devo fare ciò che mi comanda il cuore.» Sospirò, chinando la testa come un uomo che si pieghi al volere della Storia. «La verità è la verità. Non voglio influenzare in alcun modo la vostra interpretazione dei fatti, per cui mi limiterò a fornirvi i dati puri e semplici.»