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La figura del Grande Dio dominava tutta Megateopoli, come un possente centauro: non c’era strada o vicolo da cui non se ne scorgesse il profilo severo ma benigno, circonfuso da una sfavillante aureola di luce blu.

Si aveva la sensazione che il Grande Dio studiasse minuziosamente ogni pigmeo che attraversava la Grande Piazza come se, in qualsiasi momento, potesse chinarsi e afferrarne uno per esaminarlo più da vicino.

“Come se”? Ma per i cittadini comuni di Megateopoli quella non era una semplice ipotesi, ma una certezza!

Eppure, la vista di quella statua massiccia non suscitò in Jarles neppure un pizzico di orgoglio per la gloria e la grandezza della Gerarchia, o per la sua personale fortuna di esserne stato eletto membro. Al contrario, la sua rabbia crebbe ancor di più, trasformandosi in un’insopportabile corazza che soffocava le sue emozioni, rossa e opprimente come la veste scarlatta che indossava.

— Sharlson Naurya! — cinguettò Fratello Chulian.

Jarles trasalì. Il momento era giunto e all’improvviso lui capì che non avrebbe potuto fare a meno di guardarla. Non farlo, sarebbe stato da vigliacchi. Tutti i novizi faticavano terribilmente a recidere i legami sentimentali che li univano ai cittadini comuni: alla famiglia, agli amici e a chi era più di un semplice amico. Ma doveva affrontare la realtà: Naurya non avrebbe mai potuto significare niente per lui.

Né lui per lei, si rese conto con orrore, mentre girava rapidamente la testa per guardarla in viso. Non dava nemmeno l’impressione di averlo riconosciuto, o quanto meno notato, benché, a eccezione della veste scarlatta e della tonsura, lui fosse sempre lo stesso. Naurya era tranquilla, non mostrava il servile nervosismo degli uomini. Teneva le mani, piene di calli per le lunghe ore trascorse al telaio, intrecciate davanti a sé; il suo viso, reso più pallido dal contrasto con la massa scura dei capelli, non tradiva alcuna emozione, o, per meglio dire, la maschera che si era imposta era assai più impenetrabile della sua. Nondimeno, qualcosa nel suo atteggiamento, forse il modo in cui buttava le spalle all’indietro o la segreta determinazione che si leggeva in fondo ai suoi occhi verdi, trapassò la corazza di rabbia di Jarles e sollecitò il suo cuore.

— Mia cara Naurya — tubò Chulian dandosi molta importanza — ho buone notizie per te. Sappi che ti è stato riservato un grande onore: per i prossimi sei mesi tu servirai nel Santuario.

L’espressione della ragazza non mutò, nessuna emozione filtrò dal suo sguardo, ma non trascorsero che pochi secondi prima che lei rispondesse.

— È un onore troppo grande per me. Io non ne sono degna. Un lavoro santo come questo non si addice a una semplice tessitrice.

— Questo è vero — disse Chulian con paterna condiscendenza, scuotendo energicamente la testa grassa e rasata al di sopra del rigido collare della veste. — Ma la Gerarchia ha la facoltà di innalzare qualunque persona, anche la più umile. E ti ha ritenuta degna di svolgere questo lavoro sacro. Perciò rallegrati figliola e gioisci.

Quando Naurya parlò di nuovo, la sua voce era pacata e grave come nella replica di pochi istanti prima. — Ma io non ne sono degna. Lo sento nel profondo del mio cuore. Non posso farlo.

— Che cosa significa “non posso”? — All’improvviso la voce di Chulian divenne severa e querula al tempo stesso. — Significa forse “non voglio”?

Con un cenno quasi impercettibile del capo, Naurya annuì. Dietro di lei, gli altri cittadini smisero di dimenarsi nervosamente e la guardarono sgranando gli occhi.

Le labbra piccole e grassocce di Fratello Chulian si arricciarono in una smorfia di disappunto. Le sue mani guantate di rosso si contrassero facendo crepitare i fogli che stringeva in mano.

— Ti rendi conto di quello che stai facendo, figliola? Ti rendi conto che stai disobbedendo a un ordine della Gerarchia e del Grande Dio che la Gerarchia serve?

— Sento nel profondo del mio cuore di non essere degna di questo onore. Non posso. — Questa volta il suo cenno d’assenso fu più risoluto e Jarles sentì di nuovo qualcosa pungolargli le costole.

Chulian balzò in piedi dalla panca che condivideva con Jarles. — Nessun cittadino comune può contestare le decisioni della Gerarchia, perché sono giuste! Io qui avverto più di una semplice cocciutaggine, più di una deplorevole ostinazione. Esiste un solo genere di cittadino che teme di entrare nel Santuario. Io qui sento odore di… stregoneria! — proclamò con enfasi teatrale e si batté il petto con il palmo della mano. Contemporaneamente, la sua veste scarlatta si gonfiò e, senza perdere la propria rigidità, si sollevò in ogni punto di una spanna dal suo corpo, con l’effetto, terribilmente grottesco, di farlo assomigliare a un piccione paonazzo e gozzuto. A completare l’opera, un’aureola violetta gli illuminò il cranio rasato.

I cittadini impallidirono. Naurya, invece, si limitò a sorridere debolmente: i suoi occhi verdi sembravano trafiggere la figura dilatata di Chulian.

— E quando se ne sente l’odore poi è facile trovarne le prove! — riprese il piccolo sacerdote, con aria trionfante.

Fece alcuni rapidi passi avanti. Il suo guanto scarlatto e gonfio afferrò la spalla di Naurya senza quasi dare la sensazione di toccarla, ma Jarles vide la ragazza mordersi le labbra per trattenere un gemito. Poi, il guanto scivolò di scatto verso il basso strappando la spessa stoffa del grembiule e scoprendo la spalla.

Tre segni circolari risaltavano sulla pelle candida. Uno era rosso come il fuoco, gli altri si stavano rapidamente imporporando.

A Jarles sembrò di vedere Chulian esitare un attimo e fissarli incredulo, prima di riacquistare padronanza di sé e urlare con voce stridula: — È una strega! È una strega! Eccone le prove!

Jarles si alzò in piedi vacillando. La rabbia gli provocava conati di vomito. Si percosse il petto e avvertì in ogni punto del corpo la pressione interna e uniforme del campo di repulsione, come se si fosse immerso in un bagno di cera calda; con la coda dell’occhio indovinò il bagliore della sua aureola. Poi, con uno scatto improvviso, colpì Chulian con un pugno sul collo.

Benché a prima vista il movimento fosse sembrato lento e incapace di raggiungere il bersaglio, Chulian ruzzolò a terra e rotolò due volte su stesso, la veste sempre larga e tesa fra lui e il terreno, come se si trovasse dentro a un pallone di gomma rossa.

Jarles si percosse nuovamente il petto, la sua tunica si afflosciò e la sua aureola scomparve. In quel medesimo istante, la sua rabbia esplose con violenza, mandando in frantumi la maschera di ipocrisia che si era calato sul viso.

Che lo annientassero pure! Che lo rendessero sordo e cieco con le loro scomuniche! Che lo trascinassero urlante nelle cripte sotto il Santuario! La Gerarchia aveva deciso di lasciare che lui impazzisse senza intervenire. Benissimo! Adesso avrebbero avuto un assaggio della sua follia.

Balzò sulla panca e protese le mani per richiamare l’attenzione dei popolani che ancora gremivano la Piazza.

— Cittadini di Megateopoli!

Quella frase bastò a bloccare l’improvviso fuggi-fuggi scatenato dal panico. Occhi impauriti si voltarono a guardarlo con espressione stupida. Non avevano ancora capito che cosa stesse accadendo, ma quando un sacerdote parlava tutti si fermavano ad ascoltarlo.

— Vi è stato insegnato che l’ignoranza è bene. Io vi dico invece che è male!

“Vi è stato detto che pensare è male. Io invece vi dico che è bene!

“Vi è stato detto che il vostro destino è quello di sgobbare giorno e notte, fino a quando la schiena vi fa così male che temete stia per spezzarsi e le vostre mani si coprono di vesciche. Io invece vi dico che il destino di tutti gli uomini è quello di lottare per un’esistenza migliore!