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Nella camera mortuaria Laura sedette in prima fila fra Cora Lance, proprietaria della profumeria poco distante dalla drogheria Shane, e Anita Passadopolis, che aveva fatto beneficenza insieme con Bob alla Chiesa presbiteriana di St. Andrew. Avevano superato entrambe la cinquantina e trattavano entrambe Laura come se fosse una nipotina, accarezzandola in modo rassicurante e osservandola spesso con preoccupazione.

Ma non avevano bisogno di preoccuparsi. Non si sarebbe abbandonata a una crisi di pianto, né si sarebbe strappata i capelli. Sapeva che tutti dovevano morire: le persone, i cani, i gatti, gli uccelli e anche i fiori. Anche le vecchie sequoie morivano, prima o poi, sebbene vivessero venti o trenta volte più a lungo degli uomini, il che non le sembrava tanto giusto. D’altro canto, vivere un centinaio d’anni come un albero sarebbe stato certamente molto più noioso che vivere per soli quarantadue anni come un felice essere umano. Suo padre ne aveva quarantadue quando aveva avuto l’attacco di cuore. Un attacco improvviso. Ma così andava il mondo e piangerci sopra non aveva senso. Laura si sentì orgogliosa della propria saggezza.

La morte, poi, non significava la fine di una persona. La morte in realtà era solo l’inizio di un’altra vita, migliore. Era certa che fosse così perché glielo aveva detto suo padre, e lui non mentiva mai. Suo padre era l’uomo più sincero, dolce e gentile che fosse mai esistito.

Quando il pastore si avvicinò al leggìo, alla sinistra della bara, Cora Lance si chinò verso Laura. «Stai bene, cara?» le chiese.

«Sì. Sto bene», rispose, ma non si voltò. Non osava guardare nessuno e fissava semplicemente il vuoto.

Quella era la prima camera mortuaria in cui fosse mai entrata e non le piaceva. Il tappeto rosso era troppo spesso, quasi ridicolo. Anche i tendaggi, il tessuto delle sedie e i paralumi delle lampade erano dello stesso colore, con minuscole guarnizioni in oro. Così tutte le stanze sembravano essere state decorate da un architetto ossessionato da un feticcio color rosso.

Feticcio per lei era una parola nuova. L’aveva usata troppo, proprio come usava troppo ogni parola nuova, ma in questo caso era appropriata.

Il mese precedente, quando per la prima volta aveva udito la parola «sequestrato», che significava «appartato» o «isolato», l’aveva usata in ogni occasione, finché suo padre aveva iniziato a prenderla in giro. «Le patatine sono un articolo che rende parecchio, così le sposteremo nel primo scaffale vicino alla cassa perché nell’angolo in cui si trovano ora mi sembrano un po’ sequestrate». Gli piaceva farla ridere, come con le storie di Sir Rospo, un personaggio che aveva inventato quando lei aveva otto anni e la cui simpatica biografia veniva arricchita quasi ogni giorno. In un certo senso suo padre era stato più bambino di lei e lei lo aveva amato per questo.

Si morsicò le labbra per non scoppiare in lacrime. Se avesse pianto, avrebbe significato dubitare delle parole che suo padre le aveva sempre detto riguardo all’altra vita, a quella migliore. Piangendo lo avrebbe dichiarato morto, morto una volta per tutte. Finito per sempre.

Avrebbe dato chissà che cosa pur di essere «sequestrata» nella sua stanza, sopra la drogheria, nel suo letto, la testa nascosta sotto le coperte. L’idea era così allettante, che s’immaginò di poter facilmente creare un feticcio che la «sequestrasse».

Conclusasi la cerimonia, il corteo prese la via del cimitero.

Nel camposanto non c’erano lapidi e i tumuli erano contrassegnati da targhe di bronzo fissate su lastre di marmo poste a livello del terreno. I verdi prati ondulati, ombreggiati da enormi allori e da magnolie più piccole, avrebbero potuto essere scambiati per un parco, un luogo dove giocare, correre e ridere, se non fosse stato per la fossa aperta su cui era sospesa la bara di Bob Shane.

Quella notte Laura si era svegliata due volte per l’eco lontana di un tuono e, nonostante fosse semiaddormentata, le era sembrato di vedere dei lampi saettare alla finestra, ma anche se c’era stato un temporale fuori stagione, ora non ve n’era traccia. Il cielo, di un blu intenso, era terso.

Laura stava tra Cora e Anita, che l’abbracciavano e le sussurravano parole rassicuranti, ma lei non trovava conforto né nei loro gesti né nelle loro parole. Il grande gelo che avvertiva dentro di sé si faceva più profondo a ogni parola che il pastore pronunciava nella sua ultima preghiera, finché si sentì come nuda in un inverno glaciale invece che all’ombra di un albero in un caldo, tranquillo mattino di luglio.

La bara di Bob Shane fu calata nella fossa.

Non riuscendo a sopportare quella vista, Laura si liberò dell’abbraccio affettuoso delle due donne e fece quattro passi nel cimitero. Era fredda come il marmo, aveva bisogno di fuggire da tutta quell’ombra. Si fermò appena raggiunse uno spiraglio di sole. Lo sentì caldo sulla pelle, ma non riuscì a sciogliere il gelo che l’attanagliava.

Lasciò vagare lo, sguardo per qualche minuto lungo la dolce collina prima di scorgere l’uomo all’estremità del cimitero, al limitare di un boschetto di allori. Indossava un paio di calzoni larghi, di un marrone chiaro, e una camicia bianca, che in quell’oscurità appariva debolmente luminosa, come se fosse un fantasma che avesse abbandonato il suo abituale rifugio notturno per mostrarsi alla luce del giorno. Stava osservando lei e le persone raccolte intorno alla tomba di Bob, in cima alla collina. Da quella distanza Laura non poteva riconoscerlo, ma riuscì a rendersi conto che era alto, forte e biondo e… con un’aria familiare.

Quell’osservatore la incuriosì, anche se non sapeva perché. Come incantata, prese a scendere la collina, passando fra una tomba e l’altra. Più si avvicinava e più quell’uomo le sembrava familiare. Dapprima lui non reagì mentre lei si avvicinava, ma sapeva che la stava studiando attentamente, riusciva a sentire il peso del suo sguardo.

Cora e Anita la chiamarono, ma lei le ignorò. Presa da un’inspiegabile eccitazione, cominciò a camminare più velocemente. Solo pochi metri la separavano ora dallo sconosciuto.

L’uomo si ritrasse nella penombra tra gli alberi.

Timorosa che sparisse prima di poterlo osservare bene, ma senza capire ancora perché fosse tanto importante per lei vederlo meglio, Laura si mise a correre. Le suole delle scarpe nuove erano scivolose e per diverse volte rischiò di cadere. Nel punto in cui l’uomo si era fermato l’erba era schiacciata; quindi non era un fantasma.

Laura vide qualcosa muoversi fra gli alberi; era il bianco spettrale della sua camicia. Lo rincorse. Sotto gli allori, dove i raggi del sole non giungevano, cresceva solo una pallida erbetta, tuttavia spuntavano ovunque in superficie radici e ombre insidiose. Inciampò, si aggrappò al tronco di un albero per evitare di cadere, riacquistò l’equilibrio, alzò lo sguardo e scoprì che l’uomo era svanito.

Il boschetto era formato da un centinaio di alberi e i rami erano così intrecciati fra loro da consentire al sole di penetrare solo con sottili fili dorati, come se il tessuto del cielo avesse iniziato a sfilacciarsi nei boschi. Si affrettò, scrutando nell’oscurità. Pensò di averlo visto almeno una mezza dozzina di volte, ma si trattava sempre di giochi di luce o di scherzi della fantasia. Quando si alzò una leggera brezza, fu certa di avere udito i suoi passi furtivi mascherati dal fruscio delle foglie, ma nel momento in cui si mise a inseguire quel suono, tutto tacque.

Dopo un paio di minuti uscì dal boschetto e raggiunse una strada che serviva un’altra parte dell’esteso cimitero. Sul bordo erano parcheggiate delle macchine, luccicanti in quel bagliore, e un centinaio di metri più in là c’era un gruppo di persone che assisteva a un altro servizio funebre.