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Laura alzò lo sguardo verso di lui, poi ritornò ad armeggiare con la bombola.

Klietmann proseguì lungo lo stretto canale, che si restrinse a tal punto da non consentire il passaggio di due persone. Non si sarebbe avvicinato di più a meno che non fosse riuscito a intravedere il bambino. Se avesse nascosto il figlio in qualche fenditura lungo la via, avrebbe dovuto costringerla a rivelargliene il nascondiglio, perché l’ordine era di uccidere tutti: Krieger, la donna e il bambino. Personalmente non riteneva che il bambino costituisse un pericolo per il Reich, ma non metteva in discussione gli ordini.

Stefan trovò un paio di scarpe e un paio di calze nere aggrovigliate e incrostate di sabbia. Prima aveva ritrovato un paio di occhiali da sole.

Non gli era mai successo di inseguire un uomo che durante la caccia facesse lo spogliarello. Dapprima trovò la situazione decisamente buffa, ma poi pensò al mondo che Laura Shane era solita descrivere nei suoi romanzi, un mondo in cui la commedia e il terrore si fondevano, un mondo in cui la tragedia arrivava all’improvviso nel bel mezzo di una risata. E improvvisamente quelle scarpe smesse e quelle calze lo impaurirono proprio perché erano buffe. Gli venne la folle idea che se avesse riso, avrebbe deciso la morte di Laura e Chris.

E, se fosse successo, questa volta non sarebbe riuscito a salvarli tornando indietro nel tempo e mandando loro un altro messaggio in anticipo rispetto al primo, perché per una tale impresa non rimanevano che cinque secondi. Nemmeno con un computer avrebbe potuto fare tanto.

Le impronte dell’uomo sulla sabbia portavano all’imboccatura di un affluente. Anche se il dolore lancinante alla spalla lo faceva sudare e lo aveva indebolito, Stefan seguì quella traccia come Robinson Crusoe aveva seguito Venerdì, ma con un terrore di gran lunga maggiore.

Con disperazione sempre crescente, Laura vide l’assassino nazista farsi strada nella penombra lungo lo stretto corridoio. L’Uzi era puntato contro di lei, ma per qualche ragione non aveva immediatamente sparato. Utilizzò quel periodo di grazia per continuare a segare l’anello che bloccava la bombola di Vexxon.

Anche in quelle circostanze la speranza non l’abbandonò, in gran parte perché le erano appena tornate alla niente alcune righe di uno dei suoi romanzi: Nella tragedia e nella disperazione, quando sembra essere calata una notte senza fine, si può trovare la speranza pensando che la notte non verrà seguita da un’altra notte, ma dal giorno, che l’oscurità da sempre luogo alla luce e che la morte regola solo metà della creazione, la vita l’altra metà.

Ora il killer era solo a sei metri e chiese: «Dov’è il bambino? Il bambino. Dov’è il bambino?»

Sentì Chris contro la sua schiena, rannicchiato nell’ombra fra lei e la parete del budello. Si chiese se il figlio sarebbe riuscito a evitare le pallottole e se, dopo averla uccisa, quell’uomo se ne sarebbe andato senza capire che Chris era nascosto in quella buia nicchia alle sue spalle.

Il timer sulla bombola scattò. Dall’ugello fuoriuscì il gas nervino.

Klietmann non vide nulla uscire dalla bombola, ma udì il rumore: come il sibilo di innumerevoli serpenti.

Un istante dopo ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse trapassato le carni, afferrandogli lo stomaco in una morsa e glielo avesse strappato. Si ripiegò su se stesso, vomitando per terra e sui suoi piedi nudi. Con un lampo doloroso che gli bruciò le orbite, qualcosa sembrò esplodergli nel torace e il sangue gli zampillò dal naso. Mentre crollava a terra premette istintivamente il grilletto dell’Uzi. Consapevole che stava morendo e che stava perdendo il controllo di sé, cercò di cadere su un fianco, di fronte alla donna, riservandole la stessa sorte con quell’ultima raffica.

Stefan era entrato da poco nel più stretto di tutti i cunicoli, dove le pareti sembravano chiudersi sopra di lui invece di aprirsi sotto il cielo, quando udì una lunga raffica, molto vicina. Si mise a correre. Inciampò, urtò contro le pareti, ma proseguì lungo l’intricato budello, dove alla fine vide l’ufficiale delle SS morto.

Qualche metro più in là Laura era seduta, con le gambe aperte, le mani insanguinate aggrappate al contenitore del Vexxon che teneva fra le cosce. Aveva il capo abbassato, il mento appoggiato sul petto. Floscia e senza vita come una bambola di pezza.

«Laura, no!» disse con una voce che riconobbe a stento come sua. «No. No. No.»

Laura alzò la testa, sbattè gli occhi, rabbrividì e alla fine sorrise debolmente. Era viva.

«Chris?» chiese Stefan oltrepassando il cadavere. «Dov’è Chris?»

Laura allontanò la bombola di Vexxon ancora sibilante e si spostò su un fianco.

Chris guardò fuori della sua scura nicchia e chiese: «Krieger, ti senti bene? Sei bianco come un lenzuolo. Scusa, mamma, ma è proprio così».

Per la prima volta in più di vent’anni, o per la prima volta in più di sessantacinque anni se vogliamo contare quelli che aveva superato quando era venuto a vivere con Laura nel suo tempo, Stefan Krieger pianse. Quelle lacrime lo sorpresero, perché aveva pensato che la sua vita sotto il Terzo Reich l’avesse per sempre reso incapace di piangere per qualcuno o per qualcosa. Ancora più sorprendente, quelle erano le sue prime lacrime di gioia.

7

Da allora…

1

Un’ora più tardi, quando la polizia lasciò il luogo in cui era avvenuto l’agguato in cui aveva perso la vita l’agente della stradale, quando trovarono la Toyota crivellata di colpi e videro macchie di sangue sparse un po’ ovunque sul bordo del canale, quando trovarono l’Uzi scarico e quando videro Laura e Chris che uscivano arrancando dal canale all’altezza della Buick che recava le targhe della Nissan, si aspettavano di trovare la zona circostante disseminata di cadaveri e non furono delusi. I primi tre erano sul fondo del bacino, mentre il quarto si trovava in un canale lontano che Laura indicò loro.

Nei giorni che seguirono la donna sembrò cooperare con le autorità locali, federali e statali, anche se nessuna di queste era pienamente convinta che stesse raccontando l’intera verità. I trafficanti di droga che avevano ucciso suo marito, un anno prima, avevano alla fine assoldato dei killer per eliminarla perché, come lei sostenne, evidentemente temevano che potesse identificarli. L’attacco sferrato alla sua casa vicino a Big Bear era stato violento e da allora in poi erano stati così inesorabili che era stata costretta a fuggire. Non si era rivolta alla polizia perché non credeva che le autorità fossero in grado di proteggere lei e suo figlio in modo adeguato. Dalla sera del primo assalto, il 10 gennaio, primo anniversario dell’omicidio di suo marito, non aveva fatto che spostarsi di continuo. Nonostante tutte le precauzioni prese, gli inseguitori erano riusciti a scovarla a Palm Springs, l’avevano inseguita lungo la Statale 111, costringendola a inoltrarsi nel deserto, dove poi avevano continuato a darle la caccia a piedi nel canalone dove però alla fine era riuscita ad avere la meglio.

La sua storia non sarebbe stata credibile se non avesse dimostrato di essere una tiratrice molto abile, di sapersi ben difendere con le arti marziali e di essere padrona di un arsenale illegale che avrebbe fatto invidia ad alcuni paesi del Terzo Mondo. Durante un interrogatorio per determinare come fosse entrata in possesso degli Uzi modificati e del gas nervino, un’arma che l’esercito teneva sotto chiave, Laura rispose: «Io scrivo romanzi. Fa parte del mio lavoro fare molte ricerche. Ho imparato come trovare qualsiasi cosa voglio sapere, come ottenere tutto ciò di cui ho bisogno». Poi fece loro il nome di Jack il Ciccione e il raid compiuto nella sua pizzeria confermò le rivelazioni di Laura.