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Laura, ferma sul limitare della stradina, il respiro affannoso, si chiese dove fosse andato l’uomo con la camicia bianca e perché si fosse quasi sentita obbligata a inseguirlo.

Il sole accecante, la lieve brezza che aveva cessato di soffiare e il ritorno del silenzio totale nel cimitero la fecero sentire a disagio. Il sole sembrava trapassarla, come se fosse stata trasparente, e lei si sentiva stranamente leggera, quasi senza peso, e anche vagamente stordita: si sentiva come se fosse stata in un sogno, fluttuante su un paesaggio irreale.

Sto per morire, pensò.

Appoggiò una mano sul parafango di un’auto posteggiata e strinse i denti, lottando per rimanere cosciente.

Nonostante avesse solo dodici anni, raramente aveva pensato o agito come una bambina, e lei non si era mai sentita una bambina. Ma in quel momento, nel cimitero, improvvisamente si sentì molto giovane, debole e indifesa.

Una Ford marrone si muoveva lentamente lungo la strada, rallentando a mano a mano che le si avvicinava. Al volante c’era l’uomo con la camicia bianca.

Nell’attimo in cui lo vide, seppe perché le era così familiare. Quattro anni prima. La rapina. Il suo Angelo Custode. Sebbene a quel tempo avesse solo otto anni, non avrebbe mai dimenticato il suo volto.

La macchina rallentò, quasi volesse fermarsi, poi le passò accanto. Solo pochi passi la separavano dallo sconosciuto.

Attraverso il finestrino aperto poté distinguere i lineamenti di quel bel volto, come in quel terribile giorno quando lo aveva visto per la prima volta nel negozio. Gli occhi blu erano luminosi e affascinanti proprio come li ricordava. Quando i loro sguardi si incontrarono, rabbrividì.

L’uomo non disse nulla, non sorrise, ma la osservò intensamente, come se cercasse di imprimersi nella mente ogni dettaglio. La fissava come un uomo può fissare un grande bicchiere di acqua fresca dopo aver attraversato un deserto. Il suo silenzio e quello sguardo fisso spaventarono Laura, ma la riempirono anche di un incomprensibile senso di sicurezza.

L’auto stava passando oltre. «Aspetta!» urlò.

Si staccò via dall’auto contro la quale era rimasta appoggiata e schizzò verso la Ford. Lo sconosciuto accelerò e si allontanò a gran velocità, lasciandola sola nel sole, finché un attimo dopo udì la voce di un uomo chiamarla per nome: «Laura?»

Quando si voltò non riuscì a vederlo subito. Pronunciò ancora il suo nome, dolcemente, e lei lo scorse poco distante accanto agli alberi, fermo nell’ombra sotto un cespuglio di alloro. Indossava larghi pantaloni neri, una camicia nera e sembrava fuori luogo in quel giorno d’estate.

Curiosa e perplessa, chiedendosi se in qualche modo quell’uomo avesse a che fare con il suo Angelo Custode, Laura si avvicinò. Solo quando fu a pochi passi dallo sconosciuto, realizzò che la disarmonia che aveva colto fra lui e quel luminoso e caldo giorno estivo non era semplicemente dovuta al suo abbigliamento. Un’oscurità gelida era l’essenza stessa del suo essere; sembrava sprigionare un freddo interiore, come se fosse nato per dimorare nelle regioni polari o in grotte sperdute su alte montagne circondate da ghiacci.

Laura si fermò a pochi passi da lui.

L’uomo non disse più nulla, ma la fissò intensamente, con uno sguardo che sembrava più perplesso che mai.

Laura vide che aveva un cicatrice sulla guancia sinistra.

«Perché tu?» chiese l’uomo gelido e fece un passo in avanti, cercando di afferrarla.

Laura si ritrasse, troppo spaventata per gridare.

Dalla macchia di alberi giunse il richiamo di Cora Lance: «Laura? Tutto bene, Laura?»

Lo sconosciuto reagì sentendo la voce di Cora così vicino, si voltò e si allontanò fra gli alberi, dileguandosi velocemente nell’ombra, come se non fosse stato un essere reale, ma un alito di oscurità che per un attimo avesse preso forma nella vita.

Cinque giorni dopo il funerale, sabato 29 luglio, per la prima volta, Laura fece ritorno nella sua stanza sopra il negozio. Era venuta per mettere via le sue cose e per dire addio a quel luogo che per anni era stato casa sua.

Si sedette sul bordo del letto disfatto, cercando di ricordare quanto fosse stata felice e quanto si fosse sentita sicura in quella stanza solo pochi giorni prima. Una pila di libri, per la maggior parte storie di cani e di cavalli, era accatastata in un angolo. Cinquanta miniature di cani e di gatti, in vetro, ottone, porcellana e peltro, riempivano le mensole sopra la testiera del letto.

Non aveva cuccioli, perché le norme sanitarie non consentivano di tenere animali in un retrobottega. Ma un giorno o l’altro avrebbe avuto un cane e forse anche un cavallo. Ma la cosa più importante era che da grande voleva fare il veterinario, curare gli animali malati e feriti.

Suo padre le aveva detto che avrebbe potuto fare quello che voleva: diventare veterinario, avvocato, attrice, qualsiasi cosa. «Puoi fare la mandriana se vuoi, oppure la ballerina sui trampoli. Niente ti può fermare.»

Laura sorrise, ricordando il padre nell’imitazione di una ballerina sui trampoli. Ma non c’era più. Avvertì un vuoto tremendo dentro di sé.

Svuotò l’armadio, piegò con cura i vestiti e riempì due grandi valigie. Aveva anche un vecchio baule, in cui mise i libri preferiti, alcuni giochi e un orsacchiotto.

Cora e Tom Lance stavano facendo un inventario degli oggetti rimasti nel piccolo appartamento e nel negozio sottostante. Laura sarebbe andata a vivere da loro, anche se non le era ancora chiaro se quella sistemazione fosse permanente o solo temporanea.

Il pensiero del suo futuro incerto la rese nervosa, così riprese a sistemare le sue cose. Aprì il cassetto di uno dei comodini, quello più vicino a lei, e rabbrividì alla vista dei minuscoli stivali, del piccolo ombrello e della sciarpina lunga solo dieci centimetri che suo padre aveva acquistato a riprova che Sir Rospo aveva veramente preso in affitto una camera da loro.

Aveva convinto uno dei suoi amici, un bravo calzolaio, a fargli degli stivali con una forma adatta alle zampe di un rospo. L’ombrello l’aveva acquistato in un negozio di miniature, mentre la sciarpa verde l’aveva confezionata lui stesso applicando persino le frange. Il giorno del suo nono compleanno, quando era tornata a casa da scuola, gli stivali e l’ombrellino erano appoggiati contro il muro proprio accanto all’ingresso e la piccolissima sciarpa era accuratamente appesa all’attaccapanni.

«Ssst!» l’aveva zittita il padre in tono serio. «Sir Rospo è appena ritornato da un viaggio molto impegnativo in Ecuador per conto della regina, che là possiede una miniera di diamanti! È esausto. Sono sicuro che dormirà per giorni. Però mi ha detto di augurarti buon compleanno e ha lasciato un regalo per te nel prato là fuori.» Il regalo era una nuova bicicletta.

Ora, mentre osservava i tre oggettini nel cassetto, Laura realizzò che con suo padre se n’erano andati Sir Rospo e tanti altri personaggi che aveva creato e quelle sciocche, bellissime favole con cui l’aveva divertita. Gli stivali, il piccolo ombrello e la sciarpa apparivano così dolci e patetici; poteva quasi credere che Sir Rospo fosse davvero esistito e che ora se ne fosse andato in un mondo migliore. Le sfuggì un gemito e si abbandonò sul letto nascondendo il viso fra i cuscini e soffocando i singhiozzi disperati. Per la prima volta da quando suo padre era morto, diede finalmente libero sfogo al dolore.

Non voleva vivere senza di lui, tuttavia non solo doveva vivere, ma avere successo. Nonostante fosse ancora piccola, comprendeva che vivendo bene e comportandosi come una persona onesta avrebbe permesso a suo padre di continuare a vivere in un certo senso attraverso di lei.