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Non aveva parenti e, non poteva rimanere con i migliori amici di suo padre, i Lance. Tom aveva sessantadue anni e Cora cinquantasette e nonostante fossero sposati da trentacinque anni, non avevano figli. La prospettiva di dover crescere una ragazzina li aveva spaventati.

Laura comprese e non gli serbò rancore. Il giorno in cui lasciò la casa dei Lance, in compagnia di un’assistente sociale, Laura baciò sia Cora sia Tom assicurandoli che sarebbe stata bene. Mentre si allontanava agitò festosamente la mano in segno di saluto, con la speranza che si sentissero assolti.

Assolto. Una parola di recente acquisizione. Assolto: prosciolto dall’accusa di aver commesso qualche cattiva azione; liberato o sciolto da un impegno, un obbligo morale o una responsabilità. Sperava di poter essere assolta dall’obbligo di procedere nella vita senza la guida di un padre amorevole, dalla responsabilità di vivere e andare avanti nel suo ricordo.

Dalla casa dei Lance fu portata in un orfanotrofio, l’istituto McIlroy, un vecchio palazzo fatiscente in stile vittoriano, con ventisette stanze, costruito da un magnate dell’agricoltura nell’epoca in cui nella regione il settore aveva conosciuto momenti di gloria. In seguito era stato trasformato in istituto dove venivano ospitati temporaneamente i bambini sotto custodia pubblica, prima che venissero dati in affidamento. L’istituto era diverso da quelli descritti nei libri, soprattutto perché non c’erano suore gentili avvolte in ampie tonache fluttuanti.

C’era invece Willy Sheener.

Laura lo notò per la prima volta subito dopo il suo arrivo, mentre un’assistente sociale, la signora Bowmaine, le stava mostrando la stanza che avrebbe dovuto dividere — così le disse — con le gemelle Ackerson e con Tammy. Sheener stava spazzando il pavimento del corridoio.

Era un uomo sulla trentina, forte, di corporatura robusta, carnagione pallida, tutto lentigginoso, con capelli rosso rame e occhi verdi. Sorrise e mentre lavorava sibilò: «Come sta questa mattina, signora Bowmaine?»

«Benone, Willy.» Si vedeva che aveva un debole per Sheener. «Questa è Laura Shane, una nuova ragazza. Laura, questo è il signor Sheener.»

Sheener fissò Laura con un’intensità che metteva i brividi. Con voce impastata rispose: «…Ehm… benvenuta a McIlroy».

Mentre seguiva l’assistente sociale, Laura si voltò a guardarlo e Sheener, portatosi la mano alla patta dei pantaloni, cominciò a toccarsi sfacciatamente.

Laura distolse immediatamente lo sguardo.

Più tardi, mentre stava sistemando le sue poche cose, cercando di rendere più accogliente quell’angolo di stanza al terzo piano che le era stato assegnato, si voltò e vide Sheener fermo sulla porta. In quel momento era sola. Gli altri bambini stavano giocando nel cortile. Sorrideva, ma il suo sorriso era diverso da quello che aveva rivolto alla signora Bowmaine: era un sorriso freddo, da predatore. Il fascio di luce che entrava da una delle piccole finestre, andava a illuminare proprio l’entrata e si rifletteva nei suoi occhi con un’angolazione tale che apparivano argentei invece che verdi, come la cataratta che vela gli occhi di un morto.

Laura cercò di parlare senza riuscirci. Cominciò a indietreggiare finché si ritrovò contro la parete accanto al suo letto.

L’uomo era immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani chiuse a pugno.

L’istituto McIlroy non aveva l’aria condizionata. Le finestre della camera da letto erano aperte, ma dentro il caldo era torrido. Tuttavia Laura aveva cominciato a sudare solo quando si era voltata e aveva visto Sheener. Ora la sua maglietta era completamente bagnata.

Fuori, i bambini urlavano e ridevano. Erano vicini, ma sembravano lontanissimi.

Il respiro ansimante di Sheener sembrava sempre più forte, fino a coprire gradualmente le voci dei bambini.

Per un momento che sembrò lunghissimo nessuno dei due si mosse o parlò. Poi, improvvisamente, l’uomo si voltò e andò via.

Con le ginocchia tremanti, madida di sudore, Laura si mosse verso il letto e si sedette sul bordo. Il materasso molle sprofondò e le molle cigolarono.

Mentre il battito furioso del suo cuore andava rallentando, gettò uno sguardo alla grigia stanza e fu colta dalla disperazione. Ai quattro angoli erano sistemati dei lettini di ferro, con consunti copriletti in ciniglia e cuscini tutti bitorzoluti. Accanto a ogni letto c’erano dei comodini malconci, con il piano in formica, su cui poggiava una lampada di metallo. C’era poi un cassettone tutto graffiato con otto cassetti, di cui due erano suoi, e c’erano anche due armadi, e lei ne poteva usare solo la metà di uno. Vecchie tende sbiadite e macchiate pendevano da bacchette semiarrugginite. L’intero edificio stava andando in rovina e sembrava abitato dai fantasmi; nell’aria aleggiava un odore sgradevole e Willy Sheener sembrava vagare nelle stanze come uno spirito malvagio in attesa della luna piena e degli scherzi sanguinali che sarebbero seguiti.

Dopo cena le gemelle Ackerson chiusero la porta della stanza e invitarono Laura a unirsi a loro sul logoro tappeto marrone, dove potevano sedersi in cerchio e condividere i loro segreti.

Tammy, una strana e tranquilla biondina, non parve interessata alla proposta. Appoggiata ai cuscini, rimase seduta sul letto a leggere un libro, mordicchiandosi le unghie come un topolino.

A Laura, Thelma e Ruth Ackerson piacquero immediatamente. Avevano da poco compiuto dodici anni e quindi avevano più o meno la stessa età di Laura, ma erano piuttosto mature. Erano rimaste orfane tre anni prima e trovare dei genitori adottivi alla loro età era difficile, soprattutto considerato che erano due gemelle decise a non separarsi.

Non belle, ma incredibilmente identiche nella loro semplicità, avevano capelli castani, occhi marrone affetti da miopia, viso largo con il mento schiacciato e grandi bocche. Nonostante non avessero particolari requisiti fisici, erano incredibilmente intelligenti, energiche e di indole buona.

Ruth indossava un pigiama blu con bordini verde scuro e pantofole blu; i capelli erano raccolti a coda di cavallo. Thelma indossava invece un pigiama rosso scuro e un paio di pantofole gialle tutte pelose, su cui erano stati disegnati due cerchi a rappresentare gli occhi; teneva i capelli sciolti. Con il calar della sera, l’insopportabile calura del giorno se n’era andata. Solo una decina di chilometri li separava dal Pacifico, così che la brezza notturna rendeva il loro sonno piacevole. Dalle finestre aperte entrava un’arietta leggera che muoveva le vecchie tende e circolava nella stanza.

«L’estate è una noia», spiegò Ruth mentre si sedevano in cerchio sul pavimento. «Non è permesso allontanarsi dall’istituto e qui non è abbastanza grande. E in estate tutte le ‘benefattrici’ sono in vacanza e si dimenticano di noi.»

«Invece Natale è bello», intervenne Thelma.

«Sì, novembre e dicembre sono fantastici», precisò Ruth. «Proprio così», confermò Thelma. «Ci sono delle belle feste perché le dame di carità cominciano a sentirsi in colpa per avere tanto, quando invece noi, povere meschine senza casa, dobbiamo indossare cappotti smessi, scarpe dalla suola di cartone e mangiare pancotto a Capodanno. E così ci mandano cestini pieni di leccornie, ci portano in giro per negozi e al cinema, ma mai a vedere i film giusti.»

«Oh, a me alcuni piacciono», obiettò Ruth.

«Già, quel genere di film in cui non succede mai un cavolo, nessuno che salta per aria e soprattutto mai delle belle palpate. Non ci portano mai a vedere quei bei film dove ci sono delle scene erotiche, eccitanti. Film da oratorio. Noiosi, ma così noiosi…»

«Devi scusare mia sorella», disse Ruth a Laura, «ma pensa di essere arrivata alla soglia della pubertà…»

«Io sono alla soglia della pubertà! Mi sento tutta scombussolata», precisò Thelma protendendo un braccio sopra la testa.