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«Dopodiché l’Anguilla uscirebbe pulita da questa storia», disse Ruth, «tornerebbe a lavorare e troverebbe mille modi per farci pagare la soffiata. È già successo con un altro depravato che lavorava qui, un tipo che noi chiamavamo Fogel il Furetto. Povero Danny Jenkins.»

«Danny aveva denunciato Fogel il Furetto; aveva raccontato alla Bowmaine che il Furetto molestava lui e altri due bambini. Fogel fu sospeso. Ma gli altri due bambini non confermarono il racconto di Danny. Avevano paura del Furetto… ma avevano anche questo schifoso bisogno della sua approvazione. Quando la Bowmaine e gli altri interrogarono Danny…»

«Lo martellarono», proseguì Ruth, con voce piena di rabbia, «di domande trabocchetto, cercando di coglierlo in fallo. Cominciò a confondersi, a contraddirsi e così sostennero che si era inventato tutto.»

«E Fogel ritornò al lavoro», sottolineò Thelma.

«Attese il momento buono», aggiunse Ruth, «poi trovò il modo di rendere insopportabile la vita a Danny. Tormentò il bambino, finché un giorno… Danny cominciò a gridare e non smise più. Il dottore dovette fargli un’iniezione, poi lo portarono via. Psichicamente disturbato, dissero.» Ruth era sul punto di piangere. «Non l’abbiamo più visto.»

Thelma mise una mano sulla spalla della sorella. A Laura, spiegò: «A Ruth piaceva Danny. Era un bambino grazioso, piccolo, timido e dolce… ma la sua vita era segnata. Ecco perché devi essere dura con l’Anguilla. Non devi fargli vedere che hai paura di lui. Se cerca di fare qualcosa, urla e dagli un calcio nelle palle».

Tammy ritornò dal bagno e senza guardarle si sfilò le pantofole e si infilò sotto le coperte.

Nonostante Laura provasse repulsione al pensiero che Tammy fosse succube di Sheener, guardò la fragile biondina più con compassione che con disgusto. Non vi era visione più drammatica di quella piccola ragazzina, sola e annientata, che giaceva in quel lettino striminzito.

Quella notte Laura sognò Sheener. La testa era umana, ma il corpo era quello di un’anguilla bianca e per quanto Laura corresse Sheener strisciava dietro di lei, infilandosi sotto porte chiuse e altri ostacoli.

2

Nauseato da ciò che aveva appena visto, Stefan lasciò il laboratorio principale e fece ritorno al suo ufficio al terzo piano. Si sedette alla scrivania e si mise le mani nei capelli, tremando di disgusto, di rabbia e di paura.

Quel bastardo di Willy Sheener avrebbe violentato Laura, l’avrebbe picchiata a morte, lasciandola così traumatizzata che non si sarebbe più ripresa. Questa non era che una possibilità, ma sarebbe accaduto realmente se Stefan non avesse fatto qualcosa per prevenirlo. Aveva visto le conseguenze: il volto di Laura coperto dai lividi, il labbro spaccato… e i suoi occhi. Uno sguardo spento, senza vita, occhi che non risplenderanno più di gioia o di speranza.

La pioggia picchiettava contro le finestre dell’ufficio e quel suono sordo sembrava ripercuotersi nel suo essere, come se le cose terribili che aveva visto lo avessero svuotato.

Aveva salvato Laura dal drogato nel negozio di suo padre, e ora c’era già un altro maniaco. Una delle cose che aveva imparato dagli esperimenti dell’istituto era che modificare il destino non sempre era facile. Il destino non si arrendeva e cercava di far rispettare gli schemi decisi. Forse l’essere molestata e distrutta psicologicamente era un aspetto talmente immutabile del destino di Laura, che Stefan prima o poi non avrebbe più potuto impedirlo. Forse non poteva salvarla da Willy Sheener, o magari se avesse ostacolato Sheener un altro violentatore sarebbe entrato nella vita della ragazza. Ma doveva tentare.

Quegli occhi senza vita, senza gioia…

3

Settantasei bambini erano ospiti all’istituto McIlroy, tutti sui dodici anni. Quando compivano il tredicesimo anno venivano trasferiti alla Caswell Hall, ad Anaheim. Dato che la sala da pranzo era sufficiente solo per quaranta, i pasti venivano serviti in due turni. Laura era nel secondo, con le gemelle Ackerson.

Al mattino, il primo che Laura trascorreva all’orfanotrofio, mentre era in fila con Ruth e Thelma al bancone del self-service, vide che Sheener era uno dei quattro inservienti. Controllava la distribuzione del latte e dava a ciascuno delle paste, che prendeva con un paio di pinze.

A mano a mano che la coda si avvicinava, l’Anguilla guardò più volte Laura.

«Non lasciarti intimidire da lui», bisbigliò Thelma.

Laura cercò di sostenere apertamente lo sguardo e la sfida di Sheener.

Quando venne il suo turno, lui la salutò: «Buongiorno, Laura». E mise sul suo vassoio un dolce, una pasta particolare che aveva tenuto da parte proprio per lei; era più grande di quella degli altri, con più ciliegine e glassa.

Il giovedì, il terzo giorno che Laura trascorreva all’istituto, dovette sostenere un colloquio con la signora Bowmaine, nell’ufficio al primo piano. Etta Bowmaine era una donna grassa, con un guardaroba tutt’altro che seducente costituito da vestiti a fiori. Si esprimeva usando luoghi comuni e frasi fatte pregne di quella falsità melensa che Thelma aveva imitato così bene e le rivolse un sacco di domande a cui, in realtà, non desiderava le rispondesse con onestà. Laura mentì, descrivendo quanto fosse felice di essere al McIlroy e quelle bugie piacquero enormemente alla signora Bowmaine.

Mentre ritornava alla sua stanza, al terzo piano, incontrò l’Anguilla sulle scale dell’ala nord. Arrivò al secondo pianerottolo e lo vide sulla rampa di scale successive, mentre lucidava il corrimano con uno straccio. Su uno scalino era posato un flacone di cera.

Laura rabbrividì e il cuore cominciò a batterle più forte, perché sapeva che lui era rimasto lì ad aspettarla. Doveva aver saputo del suo colloquio nell’ufficio della signora Bowmaine e doveva aver immaginato che uscendo Laura avrebbe preso le scale più vicine per far ritorno alla sua stanza.

Erano soli. In qualsiasi momento poteva arrivare un altro bambino o un altro membro del personale, ma per ora erano soli.

Il suo primo impulso fu di ritornare indietro e di usare le altre scale ma poi ricordò ciò che le aveva detto Thelma, cioè di mostrarsi decisa di fronte all’Anguilla perché i tipi come lui sceglievano le loro prede fra i più deboli. Decise che la cosa migliore era passargli davanti senza proferire parola, ma le sembrava di avere i piedi incollati allo scalino; non riusciva a muoversi.

Guardando giù dalla rampa, l’Anguilla sorrise. Era un sorriso orribile. Aveva la pelle bianca, le labbra livide e i denti cariati erano gialli e chiazzati di marrone come la buccia di una banana matura. Sotto i capelli rossi tutti spettinati, il suo viso sembrava quello di un clown. Ma non quelli simpatici e burloni che si vedono al circo, bensì quelli in cui ci si può imbattere la notte di Halloween, che si portano appresso una motosega invece di una bottiglia di seltz. «Sei veramente carina, Laura.»

Cercò di dirgli di andare all’inferno, ma non riuscì ad aprire bocca.

«Voglio essere tuo amico», le propose. In qualche modo trovò la forza di salire i gradini verso di lui. Il suo sorriso si fece più ampio, forse perché pensava che Laura stesse rispondendo alla sua offerta di amicizia. Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un paio delle sue solite caramelline.