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4

Sheener viveva in un bungalow in una tranquilla strada di Santa Ana. Un quartiere costruito dopo la seconda guerra mondiale: case piccole, gradevoli a vedersi, con interessanti dettagli architettonici. In quell’estate le diverse specie di alberi di fico avevano raggiunto la maturità e i loro rami si allargavano sulle case, quasi a proteggerle; l’abitazione di Sheener era parzialmente nascosta da grandi arbusti di azalea, eugenia e ibisco dai fiori rossi.

Verso mezzanotte, con l’ausilio di un arnese di plastica, Stefan fece saltare la serratura della porta sul retro e si introdusse nella casa. Mentre ispezionava il bungalow accese tutte le luci e non si preoccupò neppure di tirare le tende alle finestre. La cucina era perfettamente pulita. Tutto risplendeva, dal ripiano blu in formica, alle maniglie cromate dei mobiletti, al rubinetto del lavandino e persino i bordi in metallo delle sedie luccicavano. Non c’era il segno di un’impronta. Aprì il frigorifero, senza sapere bene che cosa si aspettasse di trovare là dentro. Forse un’indicazione delle psicologia anormale di Willy Sheener; forse una vittima delle sue molestie, uccisa e congelata per conservare i ricordi di una passione deviante? Nulla di tanto drammatico. Tuttavia risultava chiara la mania ossessiva dell’uomo per la pulizia: tutti i cibi erano chiusi in appositi contenitori.

L’unica particolarità che notò osservando il contenuto del frigorifero e della credenza, fu la preponderanza di dolci: gelati, paste, torte, caramelle, ciambelle, persino dei croccantini per animali. C’erano anche parecchi articoli che andavano per la maggiore in quel periodo, come per esempio gli Spaghetti-Os e barattoli di minestre di verdura in cui la pasta aveva forme che ricordavano i personaggi dei cartoni animati. Quelle provviste sembravano essere state fatte da un bambino, senza il controllo di un adulto.

Stefan si addentrò nella casa.

5

La crisi di gelosia di Tammy durante la quale aveva distrutto i libri di Laura, le tolse quel poco di energia che ancora possedeva. Non parlò più di Sheener e sembrava che non serbasse più alcuna animosità nei confronti di Laura. Si chiuse sempre più in se stessa, giorno dopo giorno, cominciò a tenere sempre il capo chino e la sua voce si affievolì.

Laura non capiva che cosa le fosse più intollerabile, se la minaccia costante costituita dall’Anguilla, oppure vedere la personalità già fragile di Tammy farsi sempre più evanescente a mano a mano che scivolava verso uno stato catatonico.

I problemi di Laura parvero risolversi quando, mercoledì 30 agosto, apprese che sarebbe stata affidata a una famiglia che viveva a Costa Mesa e che il suo trasferimento era previsto per il giorno seguente.

Tuttavia le dispiaceva lasciare le gemelle. Nonostante le conoscesse solo da qualche settimana, la loro amicizia, nata in una situazione difficile, si era consolidata in fretta e appariva molto più solida di quelle nate in periodi normali.

Quella notte, mentre erano sedute come al solito sul pavimento della loro stanza, Thelma disse: «Shane, se finisci in una brava famiglia, in una bella casa, sistemati ben bene e goditela. Se sei in un bel posto dimenticaci, fatti nuovi amici e vai avanti per la tua strada. Ma le leggendarie sorelle Ackerson, Ruth e moi, sono già passate sotto il torchio delle famiglie che chiedono l’affidamento per ben tre volte e tutt’e tre erano pessime, perciò ricorda che se capiti in un posto orribile, non sei obbligata a rimanerci».

Ruth le suggerì: «Comincia a piangere e non smettere più, così che tutti sappiano quanto sei infelice. E se non riesci a piangere sul serio, fai finta».

«Tieni il muso», consigliò Thelma, «e comincia a mostrarti maldestra. Per esempio, ogni volta che lavi i piatti lasciane cadere per terra. Insomma, diventa una peste.»

Laura parve sorpresa. «Avete fatto tutto ciò per ritornare a McIlroy?»

«Questo e altro», confessò Ruth.

«Ma non vi sentivate… in colpa a rompere le loro cose?»

«È stato più difficile per Ruth che per me», confidò Thelma. «Io ho il diavolo in corpo, mentre Ruth è la reincarnazione di un’oscura e sdolcinata suora del quattordicesimo secolo di cui non abbiamo ancora identificato il nome.»

Nel giro di un giorno Laura capì che non desiderava rimanere con la famiglia Teagel, ma cercò di adattarsi illudendosi che la loro compagnia fosse preferibile a un ritorno al McIlroy.

La vera vita non era che uno scenario nebuloso per Flora Teagel, a cui interessavano solo le parole crociate. Trascorreva intere giornate seduta al tavolo della sua cucina, sempre avvolta in un maglione — qualunque tempo facesse — e riempiva, una dopo l’altra, riviste di parole crociate, con una dedizione che era allo stesso tempo stupefacente e idiota.

Quando si rivolgeva a Laura, solitamente era per darle una lista di lavori da sbrigare, oppure per chiederle aiuto quando si trovava di fronte a qualche definizione complessa. Quando Laura lavava i piatti, Flora spesso se ne usciva con domande del tipo: «Qual è la parola di sei lettere per indicare gatto?»

La risposta di Laura era sempre la stessa: «Non lo so».

«’Non lo so, non lo so, non lo so’», la scimmiottava la signora Teagel. «Sembra che tu non sappia molto, ragazza mia. Non presti attenzione a scuola? Non ti interessano la lingua, le parole?»

Laura ovviamente era affascinata dalle parole. Per lei le parole erano cose meravigliose; considerava ciascuna come una polvere o una pozione magica che poteva essere combinata con altre per creare formule misteriose. Ma per Flora Teagel le parole non erano che lettere necessarie per riempire dei quadratini vuoti, grappoli di lettere fastidiosamente inafferrabili che la frustravano.

Il marito, Mike, era un camionista tracagnotto, con la faccia da bambino. Trascorreva le serate seduto in poltrona, assorto nella lettura del National Enquirer e delle sue storie assurde su contatti con alieni e su personaggi dediti a culti satanici. La sua passione per quelle che lui definiva «notizie esotiche» sarebbe stata innocua se si fosse limitato a starsene in poltrona, ma spesso andava da Laura mentre stava facendo i lavori di casa oppure in quei rari momenti in cui aveva del tempo libero per fare i compiti e insisteva per leggerle ad alta voce gli articoli più incredibili.

Laura pensava che queste storie fossero stupide, illogiche e senza senso, ma non poteva certo dirglielo. Del resto, se l’avesse fatto, non si sarebbe nemmeno offeso. Al contrario, l’avrebbe guardata con compatimento e poi, con una pazienza esasperante e con un fare irritante da saputello, tipico di chi studia tanto ma rimane sempre ignorante, avrebbe iniziato a spiegarle come funziona il mondo. Lentamente. Ripetutamente. «Laura, ci sono ancora tante cose che devi imparare. I capoccioni che stanno a Washington, quelli sì che conoscono tutto sugli alieni e sui segreti di Atlantide…»

Su un punto Flora e Mike erano perfettamente d’accordo: prendere in affidamento un bambino per ottenere gratuitamente un servo. Laura doveva lavare, occuparsi del bucato, stirare e cucinare.

La loro unica figlia, Hazel, aveva solo due anni in più di Laura ed era terribilmente viziata. Hazel non cucinava mai, non lavava mai i piatti, non faceva mai il bucato, né puliva la casa. Nonostante avesse solo quattordici anni, aveva le dita delle mani e dei piedi perfettamente curate e dipinte. Se dalla sua età fosse stato sottratto il numero di ore che aveva trascorso a imbellettarsi di fronte allo specchio, avrebbe avuto solo cinque anni.

«Quando fai il bucato», spiegò a Laura proprio il giorno in cui arrivò, «devi mettere dentro prima i miei vestiti. E inoltre devi sempre assicurarti di appenderli nel mio armadio a seconda del colore.»