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Ma un Angelo Custode avrebbe veramente potuto sparare a un uomo? E picchiare a sangue un altro? Pazienza! La cosa più importante era che aveva un Custode bellissimo, Angelo o non Angelo, e dei genitori che l’amavano e lei non poteva certo rifiutare la felicità, ora che le stava piovendo addosso.

Martedì, 5 dicembre, Nina aveva il suo appuntamento mensile con il cardiologo, perciò non c’era nessuno in casa quando Laura tornò a casa da scuola nel pomeriggio. Aprì la porta con le sue chiavi e lasciò i libri sul tavolo stile Luigi XIV, all’entrata, accanto alle scale.

I colori tenui dell’enorme salone, crema, rosa e verde pallido, lo rendevano accogliente nonostante le sue dimensioni. Sostò un attimo alla finestra per godere della vista e in quel momento pensò a come sarebbe stato bello se Ruth e Thelma avessero potuto unirsi a lei e improvvisamente le sembrò la cosa più naturale del mondo che loro fossero lì.

Perché no? A Carl e Nina piacevano molto i bambini. Avevano amore da offrire a una nidiata di bambini, a centinaia di bambini.

«Shane», si congratulò ad alta voce, «sei un genio.»

Andò in cucina e si preparò un panino da portare nella sua stanza. Si versò un bicchiere di latte, scaldò una brioche al cioccolato nel forno e prese una mela dal frigorifero, mentre pensava al modo migliore per parlare ai Dockweiler delle gemelle. Quel progetto era così naturale che quando si accostò con il suo panino alla porta a soffietto che divideva la cucina dalla sala da pranzo e l’aprì, spingendola con la schiena, non era ancora riuscita a pensare a un singolo motivo che potesse farlo fallire.

L’Anguilla la stava aspettando nella sala da pranzo. L’afferrò e la sbattè contro il muro con una tale violenza da farle mancare il fiato. La mela e la brioche volarono via dal piatto, che le scivolò dalla mano. Con un colpo brutale le fece scivolare il bicchiere di latte che teneva nell’altra mano. Quando la scagliò di nuovo con violenza contro il muro, Laura sentì una fitta nella schiena e la vista le si annebbiò. Sapeva che non poteva assolutamente perdere conoscenza e così si aggrappò con tutte le sue forze a quel filo di coscienza che le rimaneva, con tenacia, anche se era tormentata dal dolore, non riusciva a respirare e la testa le doleva terribilmente.

Ma dov’era il suo Custode? Dove?

Sheener accostò la faccia alla sua e il terrore sembrò acutizzare i suoi sensi, poiché era perfettamente cosciente di ogni minimo particolare di quel volto sconvolto dalla ferocia: le suture ancora rosse, dove l’orecchio era stato riattaccato, i punti neri nelle pieghe attorno al naso, le cicatrici che l’acne aveva lasciato sulla sua pelle pallida. I suoi occhi verdi erano troppo strani per essere umani, alieni e feroci come quelli di un gatto.

Da un momento all’altro il suo Custode l’avrebbe liberata dalla morsa dell’Anguilla, l’avrebbe strappato via e ucciso. Era questione di secondi.

«Ti ho preso», disse Sheener con voce stridula da folle, «ora sei mia, dolcezza, e mi dirai chi è quel figlio di puttana, quello che mi ha pestato. Gli farò saltare la testa.»

La teneva per il braccio, affondando le unghie nella carne. La sollevò da terra, alzandola fino all’altezza dei suoi occhi, poi la inchiodò al muro. I suoi piedi dondolavano nel vuoto.

«Chi è quel bastardo?» Era molto più forte di quanto sembrasse. L’attirò a sé, per poi sbatterla nuovamente con violenza contro il muro, tenendola sempre all’altezza dei suoi occhi. «Dimmelo, dolcezza, altrimenti strappo via il tuo orecchio.»

Poteva arrivare da un momento all’altro. Sì, da un momento all’altro.

Una fitta di dolore le percorse nuovamente la schiena, ma fu in grado di respirare, anche se ciò che inalò fu il suo respiro, acre e nauseante.

«Rispondimi, dolcezza.»

Poteva anche morire aspettando che l’Angelo Custode intervenisse.

Gli sferrò un calcio nei testicoli. Un colpo perfetto. Per tenersi in equilibrio aveva le gambe divaricate e non era abituato ad alcun tipo di reazione, perciò non si rese assolutamente conto di ciò che stava accadendo. Spalancò gli occhi e per un istante le sembrarono umani. Emise un suono sordo, strangolato e lasciò la presa. Laura crollò sul pavimento e Sheener barcollò all’indietro, perse l’equilibrio, rovinò sul tavolo e finì dolorante sul tappeto cinese.

Immobilizzata dal dolore, dallo choc e dalla paura, Laura non riusciva a reggersi in piedi. Però poteva strisciare, strisciare lontano da lui. Freneticamente. Verso la porta della sala da pranzo. Con la speranza di riuscire ad alzarsi in piedi una volta raggiunto il salone. Lui le afferrò la caviglia sinistra. Lei scalciò per cercare di liberarsi. Niente da fare. Era troppo debole. Sheener tenne duro. Si sentì addosso le sue dita gelide, le dita di un morto. Tentò di lanciare un grido, ma le si strozzò in gola. Appoggiò una mano in un punto in cui il tappeto era intriso di latte. Vide il bicchiere rotto. La parte superiore era andata in frantumi, ma la base era ancora intatta, frastagliata da punte affilate, su cui brillavano gocce di latte. Sempre raggomitolato, semiparalizzato dal dolore, l’Anguilla le afferrò l’altra caviglia. Contorcendosi, strisciava verso di lei. Continuava a emettere un suono stridulo, come quello di un uccello. Da un momento all’altro si sarebbe gettato su di lei, immobilizzandola. Laura afferrò il bicchiere rotto e si ferì un dito, ma non sentì nulla. L’uomo lasciò un attimo la presa, ma solo per afferrarla più in alto, sulle cosce. Laura, con la schiena a terra, si muoveva a scatti, dibattendosi: come se ora fosse lei un’anguilla. Rivolse il pezzo di bicchiere rotto contro di lui, non con l’intenzione di ferirlo, ma di tenerlo lontano. L’uomo però si era già sollevato e stava ripiombando su di lei. Le punte acuminate gli penetrarono nella gola. Cercò di strapparsi via quell’arma micidiale e le punte si spezzarono nella carne. Rantolante e perdendo sangue dal naso la inchiodò al pavimento con il peso del suo corpo. Laura cominciò a dimenarsi, lui l’afferrò ancora più forte; il ginocchio che le premeva sull’anca era pesante come un macigno. La bocca era pericolosamente vicina alla sua gola. La morsicò, ma le sfiorò appena la carne. Si dimenò ancora, con più violenza. Dalla gola martoriata uscì un respiro sibilante, rantolante. Laura sgusciò via, lui l’afferrò di nuovo ma lei gli sferrò un calcio. Aveva ritrovato le forze. Il calcio era stato ben assestato. Si trascinò verso il salone, si aggrappò alla colonna della volta e si alzò in piedi. Si voltò indietro, vide che l’Anguilla era ancora accanto a lei e brandiva una sedia come fosse una mazza. La calò su Laura, che riuscì a schivarla ed entrò barcollando nel salone, per raggiungere l’entrata, la porta, una via di salvezza. Sheener lanciò nuovamente la sedia, e questa volta la colpì alla spalla. Laura cadde, rotolò, levò lo sguardo e lo vide sopra di sé. Le afferrò il braccio sinistro e lei si sentì di nuova mancare le forze; macchie scure cominciarono ad annebbiarle la vista. Era perduta. Ma le schegge di vetro nella gola raggiunsero un’altra arteria. Improvvisamente, dal naso gli sgorgò un fiotto di sangue. Le crollò addosso, un peso enorme, terribile, morto.

Non poteva muoversi, riusciva a malapena a respirare e doveva lottare con tutte le sue forze per non perdere i sensi. Mentre era scossa dai singhiozzi, udì la porta aprirsi. Dei passi.

«Laura? Sono arrivata.» Era la voce di Nina, dapprima festosa, poi l’urlo agghiacciante di terrore: «Laura? Oh, mio Dio! Laura!»

Laura fece uno sforzo tremendo per spostare quel corpo morto, ma riuscì a liberarsi solo parzialmente, quanto bastava per vedere Nina, in piedi nell’anticamera.

Per un momento la donna rimase paralizzata dallo choc. Fissava il suo bel salone, quelle tinte delicate, armoniose, deturpate da grandi chiazze cremisi. Poi i suoi occhi viola si posarono di nuovo su Laura e uscì dal suo stato di trance. «Laura, o mio Dio, Laura!» Mosse qualche passo, poi si bloccò di colpo, ripiegandosi su se stessa come se fosse stata colpita allo stomaco. Emise un suono strozzato: «Oh, oh, oh…» Cercò di raddrizzarsi. Il suo volto era contorto dalla sofferenza. Sembrava che non riuscisse a stare in posizione eretta e alla fine piombò sul pavimento senza emettere più alcun suono.