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«Ma come può essere?»

«Be’, se non lo sa lei», replicò Laura. «Dovrei essere io a farle questa domanda.»

Riempì molte pagine del suo diario con osservazioni che riguardavano il dottor Boone. Del suo ignoto Custode, tuttavia, non scrisse nulla. Cercava di non pensare a lui. L’aveva trascurata. Aveva cominciato a dipendere da lui; i suoi sforzi eroici per proteggerla l’avevano fatta sentire speciale e quella sensazione l’aveva aiutata ad affrontare la vita da quando suo padre era morto. Ora si sentiva sciocca per essersi aspettata un aiuto da qualcuno che non fosse lei stessa. Aveva ancora il biglietto che le aveva lasciato sulla scrivania, dopo i funerali del padre, ma non lo aveva più riletto. E, giorno dopo giorno, gli interventi che il suo Custode aveva fatto nella sua vita divennero sempre più simili a fantasie che dovevano essere sradicate.

Il pomeriggio di Natale tornarono nelle loro stanze con i regali che avevano ricevuto dagli istituti di beneficenza e dalle dame di carità. Finirono per cantare festosamente canzoni natalizie e grande fu il loro sconcerto quando Tammy si unì a loro. Cantava con una vocina bassa, titubante.

Nelle due settimane che seguirono smise quasi completamente di mangiarsi le unghie. Era solo un po’ più espansiva del solito, ma sembrava più calma, più soddisfatta di se stessa di quanto non lo fosse mai stata.

«Da quando non ha più maniaci che le girano attorno e che le danno fastidio», osservò Thelma, «forse si sente di nuovo pulita.»

Venerdì, 12 gennaio 1968, Laura compiva tredici anni, ma non festeggiò il compleanno; non riusciva a trovare alcuna gioia in quella ricorrenza.

Il lunedì fu trasferita dal McIlroy al Caswell Hall, un istituto che ospitava ragazzi più grandi, situato a una decina di chilometri di distanza, ad Anaheim.

Ruth e Thelma l’aiutarono a portare le sue cose nell’ingresso. Laura non avrebbe mai immaginato di provare un tale dispiacere nel lasciare il McIlroy.

«Verremo in maggio», la rassicurò Thelma. «Il 2 maggio compiamo tredici anni e saremo di nuovo insieme.»

Quando arrivò l’assistente sociale dell’istituto Caswell, Laura la seguì con riluttanza.

L’istituto Caswell era un vecchio liceo nel quale erano stati ricavati dormitori, sale di ricreazione e uffici per le assistenti sociali. L’atmosfera risultava perciò più istituzionale di quella al McIlroy; ma non solo, il Caswell era anche molto più pericoloso del McIlroy perché i ragazzi erano più grandi e perché molti di loro erano già dei delinquenti potenziali. All’interno dell’istituto circolavano marijuana e LSD, e gli scontri fra i ragazzi, persino fra le ragazze, non erano rari. Come al McIlroy, anche qui si formavano dei gruppi, alcuni dei quali così pericolosamente chiusi in se stessi da diventare delle vere e proprie bande. Il furto era prassi comune.

Nel giro di qualche settimana Laura realizzò che vi erano due tipi di sopravvissuti nella vita: quelli che, come lei, avevano trovato la forza di reagire nell’immenso amore che avevano ricevuto, e coloro che, non avendo mai conosciuto l’amore, avevano imparato a crescere nell’odio e nel sospetto, pensando alla vendetta. Di fronte ai sentimenti si mostravano sprezzanti, ma allo stesso tempo invidiosi di non poterli vivere e provare.

Laura visse in quell’ambiente con grande prudenza, ma non si lasciò mai vincere dalla paura. Quei piccoli delinquenti erano sì pericolosi, ma erano anche patetici e, nel loro atteggiamento e nei loro rituali di violenza, persino buffi. Non trovò nessuno con cui condividere i momenti di tristezza, perciò non fece che riempire il suo diario. In quei limpidi monologhi scritti, si chiuse nel suo guscio mentre attendeva che le Ackerson compissero i tredici anni. Quello fu un periodo molto ricco per lei, in cui ebbe la possibilità di scoprire se stessa e di comprendere meglio quel mondo tragico e farsesco in cui era nata.

Sabato, 30 marzo, mentre si trovava nella sua stanza intenta alla lettura, udì una delle sue compagne, una lagnosa ragazza di nome Fran Wickert, parlare nel corridoio con un’altra ragazza, di un incendio in cui erano rimasti uccisi due bambini. Laura non prestò molta attenzione al discorso, finché non udì la parola «McIlroy».

Un brivido improvviso la percorse, si sentì paralizzare il cuore e le mani. Lasciò cadere il libro e si precipitò nel corridoio, facendo trasalire le due ragazze. «Quando? Quando è avvenuto l’incendio?»

«Ieri», rispose Fran.

«Quanti m-morti?»

«Non molti, due bambini, credo; forse solo uno, ma ho sentito dire che si poteva sentire l’odore di carne bruciata. È questa la cosa più madornale che…»

Afferrando Fran per un braccio, Laura chiese: «Come si chiamano?»

«Ehi, lasciami andare!»

«Dimmi i loro nomi!»

«Non li so. Cristo, che cosa ti succede?»

In seguito Laura non ricordò né di aver lasciato andare Fran, né di essere uscita dall’istituto, ma improvvisamente si ritrovò sulla Katella Avenue, a diversi isolati da Caswell Hall. La Katella Avenue era una strada commerciale e in alcuni punti non c’era neppure il marciapiede, perciò corse dando le spalle alla strada, in direzione est, con il traffico che sfrecciava alla sua destra. Caswell distava circa dieci chilometri dal McIlroy e non era sicura di conoscere tutta la strada, ma fidandosi dell’istinto corse finché non fu esausta, poi camminò finché non fu in grado di correre di nuovo.

La cosa più razionale sarebbe stata rivolgersi direttamente a uno dei responsabili del Caswell e chiedere i nomi dei bambini che erano rimasti uccisi nell’incendio. Ma Laura aveva la strana sensazione che il destino delle gemelle Ackerson fosse legato alla sua decisione di intraprendere il difficile viaggio fino al McIlroy per chiedere di loro. Era sicura che se avesse chiesto informazioni per telefono le avrebbero detto che erano morte, mentre invece, se avesse sopportato la fatica estenuante di quella corsa, avrebbe trovato le Ackerson sane e salve. Era superstizione, ma non poté fare a meno di crederci.

Scese il crepuscolo. Il cielo di fine marzo era screziato di lingue di fuoco e i contorni delle nuvole, sparse qua e là, si erano già incendiati quando Laura arrivò in prossimità dell’istituto. Con sollievo vide che la facciata del vecchio edificio non portava tracce di incendio.

Nonostante fosse fradicia di sudore e tremante per la fatica, e sebbene avesse un tremendo mal di testa, non rallentò quando vide l’edificio intatto, ma proseguì a passo deciso fino alla fine.

Entrando incontrò sei bambini e altri tre li vide sulle scale. Due di loro la chiamarono per nome, ma non si fermò per chiedere loro notizie dell’incidente. Doveva vedere con i propri occhi.

Sull’ultima rampa di scale cominciò a sentire l’odore che l’incendio aveva lasciato: il fetore acre, pungente di cose bruciate e l’odore penetrante, persistente del fumo.

Una volta arrivata in cima, aprì la porta e vide che le finestre del corridoio al terzo piano erano aperte e che al centro erano stati disposti dei ventilatori elettrici, per incanalare l’aria in quella direzione.

La stanza delle Ackerson aveva una porta completamente nuova, di legno grezzo, ma la parete recava i segni evidenti di un incendio. Una nota scritta a mano avvisava del pericolo. Come tutte le altre porte al McIlroy, anche questa non aveva serratura, perciò Laura ignorò l’avviso e spalancò la porta, oltrepassò la soglia e vide ciò che aveva tanto temuto: tutto era distrutto.

La luce proveniente dal corridoio alle sue spalle e dalle finestre non illuminava in modo adeguato la stanza, ma fu sufficiente per vedere che i resti del mobilio erano stati portati via; la stanza era vuota. Il pavimento era annerito dalla fuliggine e bruciacchiato, sebbene strutturalmente apparisse intatto. Anche le pareti erano annerite dal fumo. Le porte degli armadi erano ridotte in cenere, alcuni pezzi di legno ciondolavano dai cardini parzialmente fusi. Entrambe le finestre erano esplose o erano state rotte da coloro che cercavano di sfuggire alle fiamme. Le aperture erano state temporaneamente coperte da teli di plastica trasparente, assicurati al muro con dei chiodi. Fortunatamente per gli altri bambini del McIlroy, il fuoco era divampato verso l’alto, devastando il soffitto. Guardò in alto, verso il solaio, dove grosse travi annerite erano appena visibili nella luce incerta. Apparentemente le fiamme si erano fermate prima di raggiungere il tetto, perciò non poté vedere il cielo.