Respirava a fatica, non solo a causa dell’estenuante corsa, ma perché si sentiva il cuore stretto da una morsa di terrore e ogni volta che inalava quell’aria acre avvertiva un senso di nausea.
Fin dal principio, nel momento stesso in cui dalla sua stanza, al Caswell, aveva sentito parlare dell’incendio, non aveva avuto dubbi sulla causa, anche se non voleva ammetterlo. Tammy Hinsen una volta era stata scoperta con una lattina di benzina e dei fiammiferi, con i quali aveva intenzione di darsi fuoco. Quando aveva saputo di quel progetto di autoimmolazione, Laura aveva capito che le intenzioni di Tammy erano serie, perché quel gesto sembrava proprio la giusta forma di suicidio per lei, un’esternazione del fuoco interiore che l’aveva consumata per anni.
Per favore, Gesù, fai che fosse sola nella stanza, per favore.
Asfissiata da quell’odore opprimente e sconvolta da quello spettacolo di distruzione, Laura lasciò la stanza devastata dal fuoco e uscì in corridoio.
«Laura?»
Alzò lo sguardo e vide Rebecca Bogner. Il respiro di Laura si fece affannoso, ma in qualche modo riuscì a pronunciare i loro nomi con voce rauca: «Ruth… Thelma?»
L’espressione gelida della ragazza negava qualsiasi possibilità che le gemelle fossero uscite illese, ma Laura ripetè quei cari nomi e nella sua voce straziata Rebecca colse una nota patetica, implorante.
«Laggiù», rispose allora, indicando un punto in fondo al corridoio. «La prima porta a sinistra dopo l’ultima stanza.»
Piena di speranza, Laura corse verso la stanza che le era stata indicata. Tre letti erano vuoti, ma nel quarto, illuminata dalla luce di una lampada da tavolo, c’era una ragazza sdraiata su un fianco, la faccia contro il muro.
«Ruth? Thelma?»
La ragazza sul letto si alzò lentamente: era una delle Ackerson, illesa. Indossava un vestito grigio, tutto stropicciato; i capelli erano tutti in disordine; il volto gonfio e gli occhi pieni di lacrime. Si mosse verso Laura, ma si fermò, come se lo sforzo fosse troppo grande.
Laura si precipitò verso di lei abbracciandola.
Stretta in quell’abbraccio, la testa appoggiata alla spalla di Laura, parlò, infine, con la voce straziata dal dolore. «Oh, Shane, come vorrei che fosse toccato a me. Se doveva essere una di noi, perché non io?»
Fino a quando la ragazza non pronunciò le prime parole, Laura pensò si trattasse di Ruth.
Rifiutando di accettare quell’orribile realtà, Laura chiese: «Dov’è Ruthie?»
«Ruthie non c’è più. La mia piccola Ruthie è morta.»
Laura ebbe la sensazione che qualcosa dentro di lei si lacerasse. Il dolore era tale che non riuscì neppure a piangere; era stordita, inebetita.
Due bambine fecero capolino sulla porta. Evidentemente dividevano la stanza con Thelma, ma Laura fece loro cenno di andare via.
Tenendo gli occhi bassi, Thelma cominciò a raccontare: «Mi sono svegliata all’improvviso con quell’urlo stridulo, un terribile urlo lacerante… e poi tutta quella luce così forte che mi feriva gli occhi. Poi ho realizzato che la stanza era in fiamme. Tammy era in fiamme. Bruciava come una torcia e si contorceva nel suo letto, avvolta da tutte quelle fiamme, urlando…»
Laura le mise un braccio attorno alle spalle e attese.
«… Lingue di fuoco si staccarono dal corpo di Tammy e… su per il muro, il suo letto era in fiamme e anche il pavimento, il tappeto, tutto era in fiamme…»
Laura ricordò quando Tammy aveva cantato con loro il giorno di Natale e come fosse diventata più calma con il trascorrere dei giorni, come se gradualmente stesse ritrovando una pace interiore. Quella pace che aveva ritrovato si basava sulla determinazione di porre fine ai suoi tormenti.
«Il letto di Tammy era quello più vicino alla porta e la porta stava bruciando. Così spaccai il vetro della finestra sopra il mio letto. Chiamai Ruth, lei… lei disse che stava arrivando, c’era tanto fumo, non riuscivo a vedere nulla; poi Heather Dorning, che dormiva nel tuo letto, si avvicinò alla finestra, e io l’aiutai a uscire. Intanto il fumo si era un po’ diradato e così riuscii a vedere che Ruth stava cercando di gettare la sua coperta su Tammy per spegnere le fiamme, ma la coperta si incendiò, e così vidi Ruth… Ruth… Ruth in fiamme…»
Fuori, l’ultimo bagliore rossastro del crepuscolo stava svanendo nell’oscurità.
Le ombre negli angoli della stanza si fecero profonde.
Il persistente odore di bruciato sembrava più forte.
«… Sarei dovuta correre da lei… ma proprio allora il fuoco esplose. Era ovunque nella stanza e il fumo era così nero e così denso che non riuscivo più a vedere Ruth né qualsiasi altra cosa… poi ho sentito le sirene, forti e vicine, e così ho cercato di convincere me stessa che sarebbero arrivati in tempo per aiutare Ruth, ma era una bugia, una bugia… e io volevo crederci. E… la lasciai lì, Shane. Oh, mio Dio. Uscii dalla finestra e lasciai che Ruthie morisse tra le fiamme…»
«Non potevi fare nient’altro», la rassicurò Laura.
«Ho lasciato che Ruthie bruciasse viva.»
«Non c’era nulla che tu potessi fare.»
«Ho lasciato Ruthie.»
«Non c’era ragione che morissi anche tu.»
«Ho lasciato che Ruthie bruciasse viva.»
In maggio, dopo che Thelma ebbe compiuto tredici anni, fu trasferita al Caswell e fu sistemata nella stanza di Laura. Le assistenti sociali la ritennero la soluzione migliore perché Thelma soffriva di depressione e non rispondeva alle terapie. Forse avrebbe trovato l’aiuto di cui aveva bisogno nell’amicizia con Laura.
Per mesi Laura disperò nel vedere l’amica uscire da quella situazione. La notte era tormentata dagli incubi e di giorno non faceva che rimproverarsi per quanto era accaduto. Alla fine, il tempo la guarì, anche se le sue ferite non si rimarginarono mai completamente. Piano piano ritornò a essere spiritosa e il suo umorismo si fece più tagliente che mai, con una vena di malinconia che non l’abbandonò mai più.
Divisero la stanza alla Caswell Hall per cinque anni, finché non furono più sotto la custodia dello stato e da sole s’incamminarono per la loro strada. Condivisero tante gioie in quegli anni. La vita era di nuovo bella, ma non fu più quella di prima dell’incendio.
11
Nel laboratorio principale dell’istituto l’elemento più importante era il tunnel, attraverso il quale si poteva viaggiare in altre dimensioni spazio-temporali. Era un enorme dispositivo, di forma cilindrica, lungo circa quattro metri e con un diametro di circa tre, in acciaio brunito all’esterno, mentre l’interno era rivestito in rame. Poggiava su blocchi di rame, che lo tenevano sollevato dal pavimento di circa venticinque centimetri. Dal cilindro si diramavano grossi cavi elettrici e all’interno delle strane correnti facevano luccicare l’aria come se fosse acqua.
Kokoschka ritornò attraverso il tempo al tunnel, materializzandosi all’interno dell’enorme cilindro. Quel giorno aveva compiuto numerosi viaggi, seguendo come un’ombra Stefan in epoche e luoghi lontani, e alla fine aveva saputo perché il traditore si ostinava a voler rimodellare la vita di Laura Shane. Si affrettò verso l’uscita del tunnel e saltò sul pavimento del laboratorio, dove due scienziati e tre dei suoi uomini lo stavano aspettando.