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«La ragazza non ha nulla a che fare con i complotti di quel bastardo contro il governo, nulla a che fare con i suoi tentativi di distruggere il progetto del viaggio nel tempo», disse Kokoschka. «È una questione a se stante, solo una delle sue crociate personali.»

«Perciò ora conosciamo tutto quello che ha fatto e perché», sostenne uno degli scienziati, «e potete eliminarlo.»

«Sì», convenne Kokoschka, attraversando la stanza e dirigendosi verso il quadro principale di programmazione. «Ora che abbiamo scoperto tutti i segreti del traditore, possiamo ucciderlo.»

Sedendosi davanti al quadro di programmazione, con l’intenzione di azzerare il programma in modo che il tunnel potesse trasportarlo in un altro tempo, dove poteva sorprendere il traditore, Kokoschka decise di uccidere anche Laura. Sarebbe stato un gioco da ragazzi, una faccenda che poteva sbrigare da solo, anche perché aveva l’elemento sorpresa dalla sua; e comunque preferiva lavorare da solo. Non gli piaceva condividere il piacere con nessuno. Laura Shane non era un pericolo né per il governo né per il suo progetto di ristrutturare il futuro del mondo, ma avrebbe ucciso lei per prima e per giunta di fronte a Stefan, giusto per spezzargli il cuore prima di finirlo con una pallottola. A Kokoschka piaceva uccidere.

3

Una luce nell’oscurità

1

Il 12 gennaio 1977, in occasione del suo ventiduesimo compleanno, Laura Shane ricevette per posta un rospo. Sulla scatola in cui era stato recapitato non c’era l’indirizzo del mittente e neppure un biglietto di accompagnamento. Aprì il pacchetto sul tavolo vicino alla finestra nella sala da pranzo del suo appartamento e i luminosi raggi del sole di quel giorno invernale insolitamente tiepido, fecero scintillare il piccolo rospo di ceramica. Era alto circa cinque centimetri, poggiava su un piedistallo, anch’esso di ceramica, color lillà; sulla testa portava un cappello a cilindro, in una mano teneva un bastone.

Due settimane prima la rivista letteraria dell’università le aveva pubblicato Storia di un anfibio, un breve racconto in cui narrava la storia di una ragazza il cui padre si dilettava a raccontare le avventure fantastiche di un rospo immaginario, Sir Tommy d’Inghilterra. Solo lei sapeva che quella storia era vera tanto quanto immaginaria, anche se sembrava che qualcuno avesse intuito, almeno in parte, quanto fosse importante per lei, visto che il piccolo rospo con il cappello a cilindro era stato confezionato con una cura straordinaria. Era accuratamente avvolto in una morbida stoffa di cotone, legata con un nastro rosso, poi ulteriormente incartato nella carta velina e sistemato in un letto di batuffoli di cotone all’interno di una semplice scatola bianca, la quale era stata a sua volta inserita in una scatola più grande imbottita di fogli di giornale accartocciati. Nessuno si sarebbe dato tanto da fare per proteggere una statuina da cinque dollari, a meno che la confezione non volesse dimostrare che il mittente sapeva quanto fosse profondo il suo coinvolgimento emotivo.

Il suo appartamento si trovava a Irvine, fuori della città universitaria, e per potersi pagare l’affitto lo divideva con altre due studentesse, Meg Falcone e Julie Ishimina. All’inizio Laura pensò persino che fosse stata una di loro a spedirle il rospo. Ma scartò la possibilità poiché non aveva rapporti stretti né con l’una né con l’altra. Erano sempre occupate con gli studi e con i loro interessi e poi vivevano con lei solo da settembre. Dichiararono infatti di non sapere nulla del rospo.

Si chiese allora se fosse stato il dottor Matlin, il docente della facoltà che seguiva la rivista letteraria all’UCI, a mandarle quella statuina. Da quando, al secondo anno, aveva seguito il corso di Matlin sulla scrittura creativa, lui l’aveva incoraggiata a coltivare il suo talento e a raffinare la sua abilità. Gli era piaciuta in modo particolare la Storia di un anfibio, e magari era stato lui a mandarle il rospo giusto per dimostrarle la propria approvazione. Ma perché anonimo, senza neppure un biglietto? Perché tutta quella segretezza? No, non era nel carattere di Harry Matlin.

All’università aveva qualche amico, ma con nessuno aveva stretto una vera e propria amicizia. Le mancava il tempo per coltivare legami più profondi. Gli studi, il lavoro e lo scrivere assorbivano tutte le ore disponibili. Non riuscì a immaginare chi potesse aver avuto un’idea tanto bizzarra.

Un mistero.

Il giorno seguente aveva la prima lezione alle otto e l’ultima alle due del pomeriggio. Alle quattro meno un quarto fece ritorno alla sua vecchia Chevy parcheggiata nel campus, aprì la portiera, si sedette e rimase sbalordita vedendo un altro rospo sul cruscotto.

Questo era alto cinque centimetri e lungo dieci. Anche questo era in ceramica, verde smeraldo, con un braccio piegato e la testa appoggiata sulla mano. Sorrideva con aria sognante.

Era sicura di aver lasciato la macchina chiusa e infatti lo era quando era tornata alla fine delle lezioni. L’enigmatico donatore di rospi aveva evidentemente dovuto affrontare non poche difficoltà per aprire la Chevy senza la chiave; doveva aver fatto passare attraverso il finestrino un fil di ferro per cercare di sbloccare il dispositivo di chiusura e poter infine lasciare il rospo.

Più tardi mise il nuovo ospite sul comodino, accanto all’altro con il cappello a cilindro. Trascorse la serata a letto, a leggere. Di tanto in tanto il suo sguardo andava alle statuine in ceramica.

Il mattino seguente, quando lasciò l’appartamento, trovò un pacchetto davanti alla porta. All’interno c’era un altro rospo sempre accuratamente confezionato. Era di peltro e sedeva su un tronco tenendo un banjo tra le zampe.

Il mistero si faceva più fitto.

In estate, cominciò a lavorare a tempo pieno come cameriera all’Hamburger Hamlet, a Costa Mesa, ma durante l’anno scolastico le lezioni erano così impegnative da consentirle di lavorare solo tre sere la settimana. L’Hamlet era un ristorante di categoria abbastanza elevata, nel quale si servivano cibi di buona qualità a prezzi ragionevoli, in un ambiente moderatamente lussuoso, con pannelli di legno alle pareti e comode poltrone. Qui i clienti erano più soddisfatti di quelli che Laura aveva avuto occasione di servire in altri locali.

Anche se l’atmosfera fosse stata diversa e i clienti meno gentili, non avrebbe lasciato il lavoro; aveva bisogno di denaro. In occasione del suo diciottesimo compleanno, quattro anni prima, aveva appreso che suo padre aveva stabilito un fondo fiduciario, costituito dal patrimonio liquidato dopo la sua morte, e che quel fondo non era stato utilizzato dallo Stato per pagare il suo mantenimento all’istituto McIlroy e all’istituto Caswell. Raggiunti i diciotto anni era entrata in possesso di quel fondo, che le era servito per il suo mantenimento e per pagare le spese dell’università. Suo padre non era ricco; c’erano solo dodicimila dollari di interessi maturati, appena sufficienti per quattro anni di affitto, cibo, vestiario e tasse scolastiche, perciò aveva bisogno del suo salario come cameriera.

La sera del 16 gennaio, Laura aveva quasi terminato il suo turno all’Hamlet quando il gestore accompagnò un’anziana coppia, sulla sessantina, a uno dei séparé assegnati a Laura. Chiesero due birre, mentre studiavano il menu. Qualche minuto dopo, quando Laura fece ritorno recando sul vassoio le birre e due caraffe ghiacciate, sul loro tavolo vide un rospo di ceramica. Per la sorpresa quasi rovesciò il vassoio. Guardò l’uomo e la donna e vide che le stavano sorridendo, ma non dicevano nulla. Così Laura esclamò: «Siete voi che mi avete regalato i rospi? Ma se non vi conosco neppure!»