Invece si sedette al posto di guida e aprì il pacchetto. Le altre statuine non dovevano essere costate molto, non più di dieci o quindici dollari, alcune probabilmente anche meno, ma quest’ultima era una squisita miniatura di porcellana che valeva almeno cinquanta dollari. La sua attenzione, tuttavia, non fu attratta tanto dal rospo quanto dalla scatola in cui era contenuto. Contrariamente alle altre, recava il nome di un negozio di articoli da regalo, «Collectibles», nel centro commerciale di South Coast Plaza.
Laura si diresse immediatamente da quella parte, ma arrivò quindici minuti prima dell’apertura, perciò attese su una panchina lungo la passeggiata e fu la prima a entrare nel negozio. La titolare era Eugenia Farvor, una donnina dai capelli grigi. «Sì, noi trattiamo questo genere di articoli», rispose dopo aver ascoltato la succinta spiegazione di Laura e avere esaminato la statuetta di porcellana. «Infatti l’ho venduto io stessa a quel giovanotto, proprio ieri.»
«Sa come si chiama?»
«No, mi dispiace.»
«Che aspetto aveva?»
«Lo ricordò bene, era molto alto, almeno un metro e novantacinque, direi, con spalle larghe. Ben vestito, indossava un completo grigio a righine e una cravatta a righe blu e grigie. Ricordo di avergli fatto anche i complimenti e lui mi disse che non gli era facile trovare degli abiti che gli andassero bene.»
«Ha pagato in contanti?»
«Mmm… no. Ha usato una carta di credito, se ricordo bene.»
«Ha ancora la copia della ricevuta?»
«Certamente, perché di solito rimaniamo sempre in arretrato di un giorno o due con i versamenti.» La signora Farvor portò Laura nel piccolo ufficio sul retro del negozio, facendole strada fra le vetrinette piene di porcellane, cristalli di Lalique e Waterford, piatti di Wedgwood, statuine di Hummel e altri articoli costosi. Ma all’improvviso ebbe un ripensamento. «Se le sue intenzioni sono innocenti, se è solo un ammiratore, e devo ammettere che mi sembrava una persona perbene, rivelandole la sua identità, rovinerò tutto. Vorrà essere lui a farlo quando lo riterrà opportuno.»
Laura cercò con ogni mezzo di convincere la donna e conquistare la sua simpatia. Non ricordava di aver mai parlato in modo più eloquente e con tanto sentimento. Di solito non era così brava a esprimere a parole i suoi sentimenti. Alla fine si ritrovò in lacrime, con sua grande sorpresa, e ciò finì per commuovere Eugenia Farvor.
Dal tagliando di pagamento ottenne il nome, Daniel Packard, e il numero di telefono. Andò direttamente dal negozio a un telefono pubblico e cercò sulla guida. C’erano due Daniel Packard, ma dal numero di telefono che aveva scoprì che la persona che cercava abitava sulla Newport Avenue, a Tustin.
Ritornò al parcheggio sotto una fredda pioggerellina. Non avendo né il cappello né l’ombrello, alzò il bavero del cappotto e si affrettò verso la macchina, ma quando la raggiunse aveva ormai i capelli bagnati ed era intirizzita dal freddo. Per tutto il tragitto da Costa Mesa a North Tustin continuò a tremare.
Pensò che molto probabilmente l’avrebbe trovato a casa. Se era uno studente non sarebbe certo stato a lezione di sabato; e se aveva un normale lavoro di otto ore, con tutta probabilità non sarebbe stato neppure in ufficio. La giornata era poco invitante per i consueti passatempi del fine settimana a cui si dedicavano i californiani amanti della vita all’aperto.
L’indirizzo corrispondeva a un gruppo di edifici a due piani in stile spagnolo, di cui otto con giardino. Per alcuni minuti corse da un edificio all’altro, sul marciapiede sferzato dal vento, alla ricerca del suo appartamento. Quando finalmente lo trovò, al pianterreno nell’edificio più lontano dalla strada, aveva i capelli bagnati fradici. Il freddo le era penetrato nelle ossa. Lo sconforto mitigò la sua paura e accrebbe la sua rabbia e quando suonò il campanello lo fece senza esitazione.
Evidentemente il ragazzo non guardò dallo spioncino, perché quando aprì la porta e la vide parve stupito. Doveva avere forse cinque anni più di lei ed era veramente alto, sicuramente più di un metro e novanta, sui novanta chili, tutto muscoli. Indossava un paio di jeans e una maglietta azzurra sporca di grasso e piena di macchie; le braccia, molto muscolose, erano formidabili. Portava una barba corta e anche il viso era tutto sporco di grasso e le mani erano nere.
Tenendosi a distanza di sicurezza, Laura chiese semplicemente: «Perché?»
«Perché…» esordì lui spostando il peso da un piede all’altro. Era talmente imponente che riempiva il vano della porta. «Perché…»
«Sto aspettando.»
Si passò una mano sporca di grasso fra i cortissimi capelli inconsapevole del disastro che ne risultò. Distolse gli occhi da Laura e nel rivolgerle la parola guardò verso il cortile battuto dalla pioggia. «Come… come ha fatto a trovarmi?»
«Questo non ha importanza. Ciò che importa è che io non la conosco, non l’ho mai vista prima d’ora e nonostante questo mi ritrovo con un esercito di rospi che lei mi ha mandato. Arriva nel cuore della notte per lasciarli davanti alla porta, penetra furtivamente nella mia macchina per depositarli sul cruscotto e questa storia dura da settimane. Non crede che sia ora che io sappia di che cosa si tratta?»
Sempre senza guardarla, il ragazzo arrossì e balbettò: «Be’, certo, ma io non… non ero pronto… non pensavo che fosse ancora il momento giusto».
«Il momento giusto era una settimana fa!»
«Mmm.»
«Avanti, mi dica. Perché?»
Guardandosi le mani unte, replicò in tono sommesso: «Be’, vede…»
«Sì?»
«Io l’amo.»
Lo fissò incredula. Il ragazzo alzò finalmente lo sguardo e Laura gridò: «Lei mi ama? Ma se non mi conosce nemmeno! Come può amare una persona che non ha mai incontrato?»
Lui guardò altrove, si passò nuovamente la mano sporca fra i capelli e si strinse nelle spalle. «Non so, ma è così e io… be’, ehm, ho questa sensazione. Vede, la sensazione che devo passare il resto della mia vita con lei.»
Dai capelli bagnati goccioline di pioggia le scivolavano lungo la schiena; il suo giorno in biblioteca era saltato; del resto come avrebbe potuto concentrarsi sulla ricerca dopo quella scena a dir poco inverosimile? Per giunta aveva scoperto, e non senza disappunto, che il suo ammiratore segreto altri non era che quel sudicio, sudaticcio, tonto balbuziente. Laura disse: «Senta, signor Packard, io voglio che lei la smetta di mandarmi dei rospi».
«Be’, ma io voglio mandarglieli.»
«Ma io non li voglio ricevere. E domani le rispedirò quelli che mi ha mandato. Anzi, li rispedirò oggi stesso.»
Lui fissò Laura con aria sorpresa e disse: «Pensavo che le piacessero i rospi».
Sempre più in collera Laura replicò: «A me piacciono i rospi. Io adoro i rospi. Io credo che i rospi siano le creature più meravigliose di questa terra. In questo preciso istante desidererei perfino essere un rospo, ma non voglio i suoi rospi. Chiaro?»
«Ehm.»
«Non m’infastidisca, Packard. Forse alcune donne subiscono il suo strano fascino di romantico autoritario e di macho sdolcinato, ma io non sono una di quelle. So difendermi da sola, non creda che non sappia farlo. Sono molto più forte di quanto non sembri e ho dovuto affrontare cose ben peggiori.»
Dopodiché Laura gli voltò le spalle e si allontanò sotto la pioggia. Salì in macchina e prese la via del ritorno. Per tutto il viaggio continuò a tremare come una foglia, e non solo perché era bagnata e intirizzita, ma perché era letteralmente furibonda. Che faccia tosta!