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Una volta a casa si svestì, si avvolse in una vestaglia, poi si preparò un caffè per scaldarsi.

Aveva appena bevuto il primo sorso di caffè, quando il telefono squillò. Rispose dalla cucina. Era Packard.

Parlò tutto d’un fiato, una frase dopo l’altra senza mai interrompersi. «Per favore, non riappenda. Ha ragione, sono uno stupido, un idiota, ma mi conceda solo un minuto per spiegarmi. Stavo sistemando la lavapiatti quando lei è arrivata, ecco perché ero così in disordine, così sporco di unto e tutto sudato. Ho dovuto tirarla fuori da sotto il ripiano io stesso; il padrone di casa l’avrebbe aggiustata, ma passando attraverso l’amministrazione ci vuole almeno una settimana e io del resto me la cavo con i lavori manuali, posso aggiustare qualsiasi cosa. La giornata era brutta, non avevo nient’altro da fare, così mi sono detto: Perché non aggiustarla io stesso? Non immaginavo certo di vederla arrivare. Io mi chiamo Daniel Packard, ma questo lei lo sa già. Ho ventotto anni, ho prestato servizio nell’esercito fino al ’73, tre anni fa mi sono laureato in economia all’università di Irvine, in California, e ora lavoro come agente di cambio, ma di sera seguo un paio di corsi all’università ed è così che per caso ho letto il suo racconto sul rospo sulla rivista letteraria dell’università. Eccezionale! Mi è piaciuto tantissimo, un racconto fantastico, veramente. Allora sono andato in biblioteca e ho sfogliato tutti i numeri arretrati per trovare altri suoi racconti. E li ho letti tutti. Parecchi erano belli, dannatamente belli. Non tutti, ma parecchi. A un certo punto non so bene quando mi sono innamorato di lei, della persona che avevo conosciuto attraverso quei racconti così belli e così reali. Poi una sera, mentre ero seduto in biblioteca a leggere una delle sue storie, la bibliotecaria passò dietro di me e a un certo punto si chinò e mi chiese se mi piaceva. Io annuii e lei mi disse: ‘Be’, l’autrice è proprio là di fronte, magari può andare a dirle che il racconto è bello’. E così l’ho vista. Era lì, a poca distanza da me, con una pila di libri, concentratissima, la fronte aggrottata, stava prendendo appunti ed era semplicemente splendida. Vede, io sapevo che doveva essere bella interiormente, perché i suoi racconti lo sono, perché i sentimenti che vi sono espressi sono belli, ma non ho mai pensato che lei potesse essere bella anche esteriormente. E non sapevo come fare per avvicinarla perché le donne belle mi hanno sempre terrorizzato, forse perché mia madre era bella ma fredda e inaccessibile, così mi sono convinto che tutte le donne belle mi rifiuteranno come ha fatto mia madre (questa è un’analisi da quattro soldi) ma è certo che sarebbe stato molto più facile per me se lei fosse stata brutta o insignificante. Il suo racconto mi fece venire l’idea di usare i rospi. Avrei fatto la parte dell’ammiratore segreto che manda i regali, per tentare di intimidirla. Mi ero ripromesso di scoprire le carte dopo il terzo o il quarto rospo, le assicuro che queste erano le mie intenzioni, ma continuai a rimandare perché non volevo essere rifiutato, almeno credo; mi resi conto che stava diventando una follia, ma non riuscivo a fermarmi e a dimenticarla e nonostante questo non avevo il coraggio di affrontarla. Questo è tutto. Non volevo certo farle del male o irritarla. Può perdonarmi? Spero di sì.»

Tacque, esausto.

Laura disse: «Bene».

«Vuole uscire con me?» replicò lui.

Sorpresa, Laura accettò: «Sì».

«Una cena e un film?»

«Va bene.»

«Stasera? Vengo a prenderla alle sei?»

«Okay.»

Dopo aver riappeso, Laura rimase per un momento a fissare il telefono. Alla fine disse ad alta voce: «Shane sei impazzita?… Però ha detto che i miei scritti sono ‘così belli e così reali’».

Andò in camera e guardò la collezione di rospi allineati sul suo comodino. «Certo che ha un comportamento veramente strano. La prima volta non riesce a dire una parola, e la volta dopo non smette un attimo di parlare. Potrebbe essere uno psicopatico, Shane.» Poi si disse: «Sì, potrebbe. Però è anche un grande critico letterario».

Visto che il programma era di andare a cena e poi al cinema, Laura indossò una gonna grigia, una camicetta bianca e un giubbotto marrone. Daniel, invece, aveva indossato un completo blu scuro, una camicia bianca con polsini doppi, una cravatta di seta blu con tanto di fermacravatta, un fazzoletto di seta nel taschino e un paio di scarpe nere lucidissime, come se dovesse andare a una prima all’opera. La scortò sotto il suo ombrello dall’appartamento all’auto, tenendola delicatamente sottobraccio. Aveva un’aria estremamente protettiva, come se temesse che Laura si potesse dissolvere se fosse stata toccata da una goccia di pioggia oppure si frantumasse in mille pezzi se fosse scivolata e caduta. A causa della diversità del loro abbigliamento e della vistosa differenza delle loro corporature — Laura era più bassa di almeno trenta centimetri e pesava la metà — ebbe la sensazione di andare a un appuntamento con suo padre o con un fratello maggiore. Non era una donna piccola, ma accanto a Daniel si sentì decisamente minuta.

Sull’auto Daniel rimase silenzioso e lei ritenne che ciò fosse dovuto al fatto che doveva guidare con estrema attenzione a causa del brutto tempo. Andarono in un delizioso ristorantino italiano a Costa Mesa, dove Laura era già stata un paio di volte in passato, apprezzandone la cucina. Si sedettero a un tavolo, ma prima che la cameriera potesse chiedere se desideravano un aperitivo, Daniel annunciò: «Qui non va bene, andiamo in un altro locale».

Sorpresa Laura chiese: «Perché? Qui va bene. La cucina è ottima».

«No, veramente, non va bene. Non c’è atmosfera, non c’è stile, non voglio che pensi, ehm». Ecco che di nuovo si esprimeva con difficoltà, come in occasione del loro primo incontro. Arrossendo proseguì: «Be’, ehm, comunque, qui non va bene, non è adatto per il nostro primo appuntamento, voglio che questa serata sia speciale». E si alzò. «Penso di conoscere il posto giusto.» Poi, rivolgendosi alla cameriera che li guardava con aria perplessa, disse: «Mi scusi, spero che non le abbiamo recato troppo disturbo». Ed era già alle spalle di Laura per aiutarla ad alzarsi. «Conosco il posto giusto. Vedrai, ti piacerà. Io non ci sono mai stato ma ho sentito che il cibo è ottimo, eccellente.» Laura si accorse che avevano attirato l’attenzione di altri clienti, perciò smise di protestare. «È vicino, tra l’altro, proprio a qualche isolato da qui.»

Ritornarono alla macchina, percorsero un paio di isolati e parcheggiarono di fronte a un ristorante dall’aspetto tutt’altro che pretenzioso, in un centro commerciale.

Ormai Laura lo conosceva abbastanza bene da sapere che doveva aspettare che lui le aprisse la portiera. Ma quando lo fece, Laura si accorse che era finito in una pozzanghera alta almeno venti centimetri. «Oh, le scarpe!» esclamò Laura.

«Si asciugheranno. Tu tieni l’ombrello e io ti porterò al di là della pozzanghera.»

Imbarazzata, Laura si lasciò sollevare e trasportare come se pesasse meno di un cuscino di piume. La depose sul marciapiede e senza l’ombrello ritornò sguazzando all’auto per chiudere la portiera.

Nel ristorante francese l’atmosfera era meno intima che in quello italiano. Furono fatti accomodare a un tavolo troppo vicino alla cucina, e mentre attraversavano la sala si udì soltanto il cic ciac e lo scricchiolio delle scarpe bagnate di Daniel.

«Ti prenderai una polmonite», disse Laura in tono preoccupato quando si furono seduti ed ebbero ordinato due aperitivi.

«Non io. Sono refrattario, non mi ammalo mai. Una volta in Vietnam, durante un’azione, rimasi isolato dalla mia unità e trascorsi una settimana da solo nella giungla e non smise un attimo di piovere. Quando finalmente trovai la via del ritorno, ero raggrinzito, ma non ho mai neppure preso un raffreddore.»