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«Ma forse io non voglio redimermi.»

«Certo, anche questo potrebbe essere vero. Io credo che lei abbia una paura fottuta di morire, ma non so se ha abbastanza fegato per continuare a vivere.»

Il dottore aveva un alito pesante, che puzzava di menta e di whisky, la bocca impastata e secca e la lingua gonfia. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un bicchierino.

Saggiò debolmente le funi che lo tenevano legato alla sedia poi, disgustato dal tono lamentevole della sua voce, ma incapace di recuperare la propria dignità, chiese: «Che cosa vuole da me?»

«Voglio impedirle di andare all’ospedale questa notte. Voglio essere matematicamente sicuro che il bambino di Janet Shane nasca senza il suo aiuto. È diventato un macellaio, un potenziale assassino. Questa volta deve essere fermato.»

Markwell si inumidì le labbra secche. «Non so ancora chi è lei.»

«E non lo saprà mai, dottore. Mai.»

Bob Shane non aveva mai avuto tanta paura. Ricacciò indietro le lacrime, perché aveva il presentimento che rivelando apertamente i suoi timori avrebbe in qualche modo dato una spinta al fato provocando la morte di Janet e del bambino.

Rimase seduto sulla sedia, si sporse un po’ in avanti, chinò la testa e pregò in silenzio: Signore, Janet avrebbe potuto avere molto di più. Lei è così bella mentre io… Non sono che un droghiere e il mio negozietto non frutterà mai grandi profìtti; ma lei mi ama. Signore, lei è buona, onesta, umile… non merita proprio di morire. Ma forse tu vuoi prenderla perché è tanto buona da meritare il Paradiso. Io invece non sono ancora abbastanza buono e ho bisogno di lei che mi aiuti a diventare un uomo migliore.

Una delle porte della saletta si aprì.

Bob alzò lo sguardo.

Entrarono in camice verde i dottori Carlson e Yamatta.

Il loro arrivo spaventò Bob, che si alzò lentamente.

Gli occhi di Yamatta erano più tristi che mai.

Il dottor Carlson era un uomo alto, corpulento, che riusciva ad avere un aspetto dignitoso anche in quella circostanza. «Signor Shane… sono desolato. Sono veramente desolato, ma sua moglie è morta durante il parto.»

Bob rimase in piedi, rigido come un palo, come se quella tremenda notizia avesse trasformato le sue carni in pietra. Udì solo in parte ciò che Carlson gli stava dicendo.

«… una grave ostruzione uterina… una di quelle donne non adatte alla maternità. Non avrebbe mai dovuto iniziare una gravidanza. Mi dispiace… sono così desolato… abbiamo fatto tutto il possibile… una forte emorragia… ma la bambina…»

La parola «bambina» fece riemergere Bob dallo stato di trance in cui si trovava. Avanzò esitante verso Carlson. «Che cos’ha detto? La bambina?»

«Sì, è padre di una femmina», disse Carlson. «Perfettamente sana.»

Bob aveva pensato che tutto fosse perduto. Adesso invece fissava Carlson, pensando che in fondo una parte di Janet non era morta e che lui, dopotutto, non era completamente solo al mondo. «Dice sul serio? Una bambina?»

«Sì», disse Carlson. «È una bambina straordinariamente bella, con tanti capelli castani.»

Guardando Yamatta, Bob mormorò: «La mia bambina si è salvata».

«Sì», disse Yamatta e il suo volto intenso si illuminò per un attimo di un dolce sorriso. «E deve ringraziare il dottor Carlson. Purtroppo la signora Shane non aveva speranze. In mani meno esperte anche il bambino sarebbe potuto morire.»

Bob si rivolse a Carlson, ancora incredulo. «Mia… figlia si è salvata e di questo almeno devo esservi grato, non è così?»

Il silenzio del dottore tradiva un certo imbarazzo. Poi Yamatta mise una mano sulla spalla di Bob Shane, consapevole che forse quel contatto lo avrebbe confortato.

Sebbene Bob fosse di una spanna più alto e più grosso del piccolo dottore, si appoggiò a Yamatta. Sopraffatto dal dolore pianse e Yamatta lo sostenne.

Lo sconosciuto rimase con Markwell per un’altra ora, ma non parlò più e non rispose ad alcuna delle domande che Markwell gli rivolgeva. Era coricato sul letto, lo sguardo fisso al soffitto, così immerso nei suoi pensieri che raramente si muoveva.

Gli effetti dell’alcol stavano svanendo e il dottore cominciò a essere tormentato da un tremendo mal di testa. Solitamente dopo i postumi della sbornia si sentiva quanto mai incline all’autocommiserazione.

Alla fine lo sconosciuto guardò l’orologio. «Undici e mezzo. Devo andare ora.» Saltò giù dal letto, si avvicinò alla sedia e tirò di nuovo fuori da sotto il giaccone il suo coltello.

Markwell si irrigidì.

«Taglierò uri po’ queste funi, dottore. Se si dà da fare, in una mezz’oretta sarà libero. E io avrò il tempo sufficiente per allontanarmi da qui.»

Quando l’uomo si abbassò dietro la sedia, Markwell pensò che gli avrebbe affondato la lama fra le costole.

Ma qualche attimo dopo lo sconosciuto mise via il coltello e si avvicinò alla porta della camera. «Ha una possibilità di redimersi, dottore. Io credo che lei sia troppo debole per farlo, ma spero di sbagliarmi.»

Poi uscì.

Dopo dieci minuti, mentre lottava per liberarsi, Markwell sentì dei rumori provenire dal piano di sotto. Evidentemente l’intruso stava cercando degli oggetti di valore. Per quanto misterioso, forse non era che un ladro con uno stranissimo e singolare modus operandi.

Finalmente, a mezzanotte e venticinque, Markwell riuscì a liberarsi delle funi che lo imprigionavano. I suoi polsi recavano profondi segni e sanguinavano. Sebbene nell’ultima mezz’ora non avesse udito alcun suono provenire dal primo piano, prese la pistola dal cassetto del comodino e scese le scale con cautela.

Si recò subito nell’ambulatorio, dove si aspettava che fossero state prelevate delle medicine, ma nessuna delle due alte vetrinette era stata manomessa.

Si precipitò nello studio, convinto che la cassaforte a muro fosse stata aperta.

Ma scoprì che anche quella era intatta.

Sconcertato, si voltò per andarsene quando, nel lavandino del bar, vide ammonticchiate bottiglie vuote di whisky, gin, tequila e wodka. Lo sconosciuto si era fermato soltanto per cercare la scorta dei liquori e poi svuotarli nello scarico del lavandino.

Sullo specchio del bar era stato appeso un biglietto: un messaggio a chiare lettere in stampatello:

SE NON SMETTE DI BERE, SE NON IMPARA AD ACCETTARE LA MORTE DI LENNY, TEMPO UN ANNO E SI INFILERÀ LA CANNA DI UNA PISTOLA IN BOCCA PER FARSI SALTARE LE CERVELLA. QUESTA NON È UNA PROFEZIA. QUESTO È UN DATO DI FATTO.

Tenendo ben stretti il biglietto e la pistola, Markwell si guardò attorno, come se lo sconosciuto fosse ancora lì, invisibile, un fantasma che poteva scegliere a suo piacimento fra l’essere visibile e invisibile. «Chi sei?» chiese. «Chi diavolo sei?»

Solo il vento alla finestra gli rispose, ma il suo gemito doloroso aveva significati che egli non poté capire.

Il mattino dopo, alle undici, dopo essersi occupato delle formalità di rito per la sepoltura di Janet, Bob Shane ritornò all’ospedale per vedere sua figlia. Indossò un camice, una cuffia e una mascherina e dopo che si fu meticolosamente lavato le mani, secondo gli ordini di un’infermiera, gli fu consentito di entrare nella nursery, dove con delicatezza sollevò Laura dalla sua culla.

Nella stanza c’erano altri nove neonati e tutti, in un modo o nell’altro, erano graziosi, ma Laura Jean parve a Bob la più bella di tutti. Sebbene di solito gli angeli venissero rappresentati con occhi azzurri e capelli biondi, mentre Laura aveva occhi e capelli scuri, il suo aspetto era angelico. Per tutto il tempo in cui la tenne in braccio non pianse mai. Socchiudeva gli occhi, oppure li faceva girare qua e là e sbadigliava. Aveva anche uno sguardo pensoso, come se sapesse di essere orfana di madre e che lei e suo padre non avevano altri su cui contare, in quel freddo e difficile mondo.