Il fatto è che gli scrittori americani di fantascienza, LeGuin compresa, avevano una terribile vergogna del proprio passato “pulp”. Da qui la decisione di ribellarsi alle strettoie dell’editoria commerciale riesumando i temi della produzione mainstream: psicologismo e coscienza sociale, come se la science fiction dovesse imparare improvvisamente le buone maniere. E scimmiottare il realismo del romanzo borghese, lei che era stata innanzi tutto letteratura pop. (Il risultato di questi tentativi, imprevisto ma necessario, è stata una pletora di prodotti mediocri e semi-culturali.) Nessuna buona intenzione del genere avrebbe potuto indurre Fredric Brown a fare un passo indietro dal proprio paese d’ombre ai Confini della realtà. Al polo opposto rispetto ai manierismi letterari convenzionali, aborriva con pari foga quelli del mercato “pulp”: ma anziché rinnegarli ha preferito sublimarli in invenzioni meravigliose (vedi il suo capolavoro sul mondo della fantascienza, Assurdo universo). Anche lui aspirava a una narrativa attenta ai personaggi e alle loro emozioni, ma non ha mai rinunciato all’arte dello showman, e infatti molti dei suoi racconti sono ambientati in un carnival, il luna-park americano dei mostri e delle ombre. Anche lui perseguiva una scrittura lucida e intelligente, ma la coscienza del proprio mercato gli ha sconsigliato di abbandonare la pennellata vivida.
I suoi romanzi, in effetti (come i racconti, che tuttavia sono più tesi e calcolati al millesimo), sembrano una cosa e si rivelano un’altra, e non alludiamo solo alle sorprese della trama. In Brown la sorpresa è un ingrediente fondamentale e non manca mai; ma la vera rivelazione è che ciò che ci era sembrato l’assunto, la “tesi” dello scrittore, si è ora completamente ribaltato. Credevamo di leggere un thriller e ci troviamo di fronte ad un tuffo nella coscienza. Fredric Brown, che come Poe e Ambrose Bierce ci avvia sempre a una favola, finisce per smontarla con perizia, offrendoci una soluzione moderna ed elegante, non priva di humour, che è più originale del suo punto di partenza. La fantascienza è anche questo.
A differenza di un altro grande del periodo, l’orripilante-giallissimo Cornell Woolrich, Fredric Brown, che per certi aspetti gli somiglia, rimane lucido e matematico anche quando racconta incubi (cosa che fa spesso). È un visionario a tinte fosche, certo, ma della scuola di Lewis Carroll. O di Karel Thole. Il suo è un fantastico della simmetria, di geometrie diverse ma sempre a fuoco. È un narratore tipo Borges, più che Lovecraft. Il suo obiettivo (come dimostra quel capolavoro carrolliano che è Marziani, andate a casa!) è scompaginare il reale, ribaltarlo fin nelle pieghe più profonde e trarne una visione d’insieme alterata, da capogiro, ma profondamente sensata e originale; non stenteranno ad accorgersene i lettori dei racconti riuniti in questo volume.
Attenzione, della short story Brown è un maestro imprevedibile, un O. Henry in chiave fantastica: perciò nessuna soluzione razionale, nessun conforto ufficiale, nessun ristabilimento dell’ordine potranno salvare il pubblico che li riscoprirà da uno shock terrificante e salutare. Perché, pur essendo calcolati al millesimo e perfettamente orchestrati, quei racconti restano misteri sul serio. Le soluzioni della scuola “rispettabile” non interessano il signor Brown, che oltre a essere un artista moderno è anche, per scelta, un saltimbanco e un mago Mandrake. Il Mandrake del brivido, tessitore di vortici.