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«Certo,» disse Charlie, «se avessi qualcosa su cui scriverla.»

«Qui, sulla mia agenda,» disse Andy. Alzò lo sguardo oltre la spalla del portiere e vide Tab che usciva dalla stanza dei guardiani.

«Tab? Che cosa fai qui a quest'ora della notte?» chiese Shirley.

«Vi aspettavo. Ho sentito che lasciavate la casa e volevo darvi una mano con le valigie.»

«Ma è tardi…»

«Ultimo giorno di lavoro. Devo terminare il mio compito. E non vorrete farvi vedere in giro a quest'ora della notte con delle valigie? Un sacco di gente vi taglierebbe la gola per molto meno.» Prese due delle borse e Andy prese la terza.

«Mi auguro che qualcuno mi venga a molestare,» disse «con a fianco una guardia del corpo di prim'ordine e un poliziotto. Tutto ciò per accompagnarmi a un paio di isolati di distanza.»

«Ne faremmo carne da polpette,» disse Andy riprendendosi l'agenda e aprendo la marcia verso la porta che Charlie manteneva aperta.

Fuori la pioggia era cessata e fra una nube e l'altra si vedevano le stelle. La temperatura era deliziosamente fresca. Shirley prese per il braccio ognuno dei suoi compagni e s'incamminò, uscendo dallo spiazzo illuminato dell'ingresso di Chelsea Park e inoltrandosi nell'oscurità della strada.

CAPITOLO DODICESIMO

Era stata una strana esperienza, salire le scale al buio, dirigendo la luce sulla gente addormentata sui gradini, mentre Andy portava le sue valigie. Il suo amico Sol dormiva e avevano rapidamente attraversato la stanza, entrando in quella di Andy. Il letto era appena sufficiente per loro due, e lei era stanca, si era rannicchiata tutta contro di lui, con la testa sulla sua spalla e aveva dormito così saporitamente che non si era destata quando Andy si era svegliato, si era vestito, ed era uscito. Svegliandosi vide che il sole entrava nella stanza e arrivava sino ai piedi del letto, e quando appoggiò i gomiti sul davanzale della finestra, sentì quel buon odore di aria pulita, come lavata di fresco. Solo dopo un temporale, la città era così. La polvere e la caligine erano state portate via dall'acqua e l'aria era miracolosamente chiara. Sì vedevano in lontananza i profili angolosi degli edifici di Bellevue che si stagliavano al disopra di un groviglio di tetti neri come il catrame, e di muri di mattone macchiati. Il caldo era finito, scomparso con la pioggia, e questa era la cosa più importante. Shirl sbadigliò soddisfatta e si voltò a guardare la stanza.

Era proprio una tipica camera da scapolo, abbastanza in ordine; ma aveva altrettanto fascino che una vecchia scarpa. Dappertutto c'era una sottile patina di polvere, ma questo era colpa di Shirl, perché Andy non era rimasto molto a casa, durante quel mese. Se avesse potuto procurarsi un po' di pittura, una mano di vernice su quel canterano non ci sarebbe stata male. Non sarebbe stato così scalfito e graffiato neanche se fosse stato travolto da una valanga.

Per fortuna vi era una specchiera grande, con una lunga crepa in mezzo, ma ancora valida. E un guardaroba per appendere le sue cose. Non c'era, in realtà, da lamentarsi. Bastava ripulirla un po' e la camera sarebbe stata carina. E togliere di mezzo quei milioni di ragnatele sul soffitto.

Vi era un serbatoio d'acqua con un rubinetto, sulla parete divisoria, vicino alla porta, e quando l'apri, un rivolo d'acqua scese tintinnando nel catino fissato su due mensole sotto il serbatoio. Aveva un forte odore di prodotti chimici che Shirl aveva scordato poiché tutta l'acqua di Chelsea Park passava attraverso costosi filtri. Non trovò sapone in giro, ma si buttò un po' d'acqua in faccia, si sciacquò le mani e si stava asciugando sull'asciugamano sbrindellato appeso li vicino quando un suono ululante e metallico nello stesso tempo le giunse attraverso la tramezza. Non riuscì ad immaginare che cosa fosse, eppure non poteva venire che dall'altra stanza, quella abitata da Sol. Era lui, chissà come, che produceva quel suono, ed era cominciato soltanto dopo che lui l'aveva sentita muoversi, e usare l'acqua, il che era molto gentile da parte sua. Ma voleva anche dire che la camera di Andy, in quanto a rumori, aveva la stessa appartata intimità di una gabbia di canarini. Era purtroppo inevitabile. Si spazzolò i capelli, infilò lo stesso vestito che indossava la sera prima, si truccò appena. Quando fu pronta, respirò profondo e aprì la porta.

«Buongiorno,» gli fece, non riuscendo a trovare altro da dire e rimanendo nel vano della porta, irrigidita, trattenendo un urlo. Sol era seduto sul sellino di una bicicletta senza ruote, e non andava in nessun posto ma pedalava a tutta velocità, con i capelli grigi che gli svolazzavano sul capo, la barba che gli batteva sul petto a ogni pedalata. L'unico suo indumento era un paio di vecchi shorts molto rattoppati. L'ululato proveniva da un oggetto nero dietro la bicicletta.

«Buongiorno,» disse una seconda volta, più forte però. «Sono Shirley Greene,» gli disse.

«E chi altri potrebbe essere?» disse freddamente Sol scendendo dalla bicicletta e asciugandosi il sudore dal viso con l'avambraccio.

«È la prima volta che vedo una bicicletta come questa. Serve a qualcosa?» Non voleva litigare con lui, per quanta voglia Sol, invece, ne avesse.

«Certo,» disse, «fa il ghiaccio.» Andò a mettersi la camicia.

Dapprincipio Shirl pensò che fosse uno di quegli scherzi a freddo che lei non capiva mai, ma poi vide i fili che collegavano quella specie di motorino nero dietro la bicicletta ai numerosi accumulatori sovrastanti il frigorifero.

«Ho capito,» disse, felice della sua scoperta. «Fate funzionare il frigorifero con la bicicletta. Mi sembra una cosa meravigliosa.»

La sua sola risposta, questa volta, fu un grugnito, senza alcun commento, e lei seppe così che stava facendo progressi.

«Vi piace il kofee?»

«Che ne so, è tanto tempo che non ne bevo.»

«Ne ho mezza lattina nella borsetta. Con un goccio d'acqua calda se ne potrebbe fare un po'.» Non aspettò la risposta ma andò a prendere la lattina nell'altra stanza. Egli guardò per un attimo il suo contenuto marrone, poi alzò le spalle e andò a riempire d'acqua una pentola.

«Scommetto che sa di veleno,» disse mettendo l'acqua sul fornello. Prima però accese la luce della stanza e studiò il filamento incandescente del bulbo, poi assentì con diffidenza. «Tanto per cambiare, oggi abbiamo un po' di corrente. Speriamo duri abbastanza per far bollire due dita d'acqua.» Accese il fornello elettrico. «Io ho bevuto solo kofee, da due anni,» disse Shirl seduta sulla poltrona vicino alla finestra. «Si dice che non abbia il sapore del vero caffè, ma io non lo so.»

«Ve lo dirò io, non ha il sapore del caffè.»

«Voi avete assaggiato del vero caffè? Più di una volta?» Shirl sapeva che tutti gli uomini erano felici di raccontare le proprie esperienze.

«Assaggiato? Perbacco! Io vivevo di caffè. Voi siete una bambina, non avete idea di come erano le cose, ai tempi andati. Si bevevano tre, quattro tazze, talvolta tutta una caffettiera, senza neppure pensarci. Una volta mi sono perfino intossicato, la mia pelle diventava marrone, e tutto quanto, perché ne bevevo sino a venti cartoni al giorno. Ero un campione, come bevitore di caffè; avrei potuto vincere delle medaglie.»

Shirl poté soltanto scuotere la testa in segno d'omaggio, poi si sorbì il suo kofee. Era ancora troppo caldo. «Ora che mi ricordo…» disse balzando dalla sedia e andando nell'altra stanza. Tornò subito e diede a Sol due sigari. «Andy mi ha detto di darveli, che un tempo voi fumavate.» Il suo atteggiamento di superiorità maschile svanì di colpo e rimase a bocca aperta. «Sigari?» Fu tutto quanto riuscì a dire.

«Sì, Mike ne aveva una scatola, ma rimanevano solo questi due. Non so se sono buoni o no.»

Sol cercò di ricordare il rituale che accompagnava l'esame di un sigaro. Annusò con sospetto la punta di uno di essi. «Perlomeno ha odore di vero tabacco.» Poi avvicinò il sigaro all'orecchio, diede un pizzicotto all'estremità più piccola. Lo scricchiolio si udì nettamente. «Ah! ah! Troppo secco, l'avrei giurato. I sigari devono essere trattati con cura, tenuti nel clima adatto. Questi si sono essiccati. Avrebbero dovuto stare in un umidificatore. Così non si possono fumare.»