Quando i bordi frastagliati del metallo cominciarono a penetrargli nelle braccia, rientrò e si andò a lavare nella bacinella di acqua salmastra sistemata dietro la porta. Non v'era molta acqua, ma si strofinò la faccia e la bocca, lisciò i suoi capelli all'indietro meglio che poté, mirandosi nel piccolo specchio appeso alla parete, poi si volse rapidamente tirandosi gli angoli della bocca verso il basso. Il suo viso era così tondo e giovane che, quando si distendeva, la bocca aveva sempre una leggera curva rialzata e pareva che sorridesse. Ciò non corrispondeva ai suoi sentimenti. Il viso ingannava sulla persona. Con l'ultima acqua rimasta si fregò le gambe nude e tolse, in buona parte, il fango e la sporcizia; almeno ora si sentiva più fresco. Andò a stendersi sul letto e guardò la fotografia di suo padre appesa al muro, unico ornamento di quella stanza. Capitano Chung Pei-fu, dell'Esercito del Kuomintang. Un militare di carriera che aveva dedicato la vita alla guerra e non aveva mai combattuto una battaglia. Nato nel 1940, era cresciuto a Formosa ed era stato uno dei soldati della seconda generazione di Ciang Kai Chek, esercito che era invecchiato marcando il passo. Quando il generale si era improvvisamente spento all'età di 84 anni, il capitano Chung non aveva preso parte alla congiura di palazzo che aveva finito per portare il generale Kung al potere. Quando poi vi era stata l'invasione del territorio, egli era in ospedale, colpito da malaria ed era rimasto lì durante i sette giorni cruenti. Era stato fra i primi ad essere trasferito per via aerea dopo la caduta dell'isola, prima ancora della sua stessa famiglia. In quella fotografia aveva un cipiglio fiero e militare, e non l'espressione infelice che Billy gli aveva sempre visto. Si era ucciso il giorno della nascita dei gemelli.
Come un ricordo che svanisce, la fotografia usci dalla sua vista con l'incombere dell'oscurità, poi riapparì nella debole luce di una lampadina che aveva momenti più o meno intensi di luce secondo i capricci della corrente elettrica. Billy guardava la luce che s'indeboliva sempre più, finché solo il filamento rosso fu visibile, poi si spense. Toglievano la luce più presto, quella sera, o c'era ancora un guasto. Billy era sdraiato nell'oscurità soffocante, sentiva il letto diventare caldo e fradicio sotto la schiena. Le pareti di quella scatola d'acciaio sembravano stringerlo sempre di più. Venne il momento in cui non lo poté più sopportare. Le sue dita umide cercarono a tentoni la porta, trovarono la maniglia. Ma nell'altra stanza le cose non andavano meglio, anzi, forse peggio. Lo sfarfallio verdastro della TV si rifletteva sul viso di sua madre, di sua sorella e dei suoi fratelli, trasformando i loro visi, con la bocca aperta e gli occhi spalancati, in volti di annegati. Nell'altoparlante si udì il tambureggiare ritmato di zoccoli che galoppavano e il crepitio di una sparatoria senza fine. Sua madre schiacciava ritmicamente il manico del vecchio generatore meccanico di corrente, che era stato innestato sull'apparecchio in modo da poterlo usare subito quando mancava la corrente di città. Notò suo figlio che si avvicinava e gli passò il manico del generatore, sempre contraendolo meccanicamente con la mano.
«Questo, ora, lo fai funzionare tu, io ho la mano stanca.»
«Io esco, dallo ad Anna.»
«Tu fai ciò che ti dico,» strillò. «Tu mi ubbidisci. Un ragazzo deve ubbidire a sua madre.» Era così arrabbiata che si dimenticò di premere sul generatore e lo schermo si oscurò. I gemelli si misero a gridare subito, mentre Anna li chiamava per tranquillizzarli, aumentando la confusione generale. Billy non uscì: fuggì dalla stanza, e non si fermò finché non fu in coperta, col fiato grosso, e grondando di sudore. Non c'era niente da fare, né dove andare. La città premeva intorno a lui e ogni suo metro quadrato era uguale a quello che aveva appena lasciato, pieno di gente, di bambini, di rumore, di caldo. Guardò oltre la ringhiera, nell'oscurità, ma non vide nulla.
Meccanicamente, quasi senza avvedersi di ciò che faceva, Bill attraversò il labirinto nero delle navi sino alla riva, poi si affrettò verso le luci largamente intervallate della 23a Strada: era pericoloso rimanere nell'oscurità notturna della città. Forse valeva la pena di dare un'occhiata alla Western Union, o era meglio non tornare così presto ad importunarli? Voltò per la Nona Avenue, guardò l'insegna blu e gialla del telegrafo, mordendosi il labbro, perplesso. Un ragazzo usci correndo con un messaggio sotto il braccio, lasciando quindi il posto ad un altro fattorino. Era opportuno entrare.
Quando fu sotto l'arco della porta, il suo cuore si mise a battere rapidamente: la panca dei fattorini era vuota. Il signor Burgger alzò gli occhi dalla scrivania, con lo stesso viso collerico del pomeriggio.
«Hai fatto bene a deciderti di tornare, altrimenti era inutile ti scomodassi domani. Tutto è in moto questa notte, non capisco perché. Recapitami questo.» Finì di scarabocchiare un indirizzo sul coperchio, poi infilò la linguetta gommata nell'apposito taglio delle tavolette a cerniera, la leccò, e le sigillò con quella. «Pronta cassa,» disse buttando la lavagnetta sul ripiano.
Il fermaglio metallico non si voleva sciogliere e Billy si ruppe un'unghia per tirare fuori i soldi dalla scarpa, srotolare uno dei biglietti, aprirlo e farlo scivolare sul legno scalfito del banco. Tenne stretto l'altro biglietto insieme con il telegramma e si affrettò ad uscire, fermandosi con la schiena al muro appena non fu più in vista dell'ufficio. L'insegna luminosa dava abbastanza luce per permettergli di leggere l'indirizzo.
Sapeva dove si trovava quella casa, e sebbene fosse passato un infinito numero di volte davanti a quell'edificio, non era mai entrato in quella specie di bastione pieno di appartamenti di lusso, costruito nel 1976 dopo che uno spettacoloso gioco di corruzione aveva permesso al comune di lottizzare ed appaltare Chelsea Park per costruirvi abitazioni private. Vi erano muri di cinta, terrazze, torrette in stile neo-feudale. L'aspetto corrispondeva alla funzione, che consisteva nel tenere lontana la massa il più possibile. Sulla facciata posteriore vi era l'ingresso di servizio, male illuminato da una lampadina racchiusa in una nicchia e protetta da una grata. Billy premette il bottone visibile sotto di essa.
«Questo ingresso è chiuso fino alle zero-cinque-zero-zero,» disse una voce registrata e Bill si premette la tavoletta sul petto con uno spasimo improvviso di paura. Ora gli toccava girare intorno al caseggiato, presentarsi alla porta tutta illuminata, al portiere, alla gente che vi sarebbe stata. Si guardò le gambe e cercò di strofinare alcune macchie, le più vecchie. Ora si sentiva più pulito, ma non poteva far nulla per i vestiti stracciati o rattoppati. Generalmente non badava a queste deficienze perché tutti quelli che incontrava erano vestiti alla stessa maniera. Ma qui era diverso, e lui lo sapeva. Non voleva trovarsi di fronte alla gente di questo palazzo, si pentiva di aver fatto tanto per ottenere quel posto e voltò l'angolo dirigendosi verso la porta d'entrata ben illuminata.
Un fossato, che teoricamente avrebbe dovuto contenere acqua ed era invece asciutto, era diventato un ricettacolo di immondizie. Lo varcava una passerella fissa, camuffata da ponte levatoio, con tanto di catene arrugginite, e con una saracinesca abbassata, fatta di sbarre di ferro appuntite poste su uno sfondo di vetro spesso. Camminare su quel ponticello molto illuminato era come buttarsi nelle fauci del lupo. La poderosa figura del portiere si stagliava dietro le sbarre, con le mani incrociate dietro la schiena. Costui non si mosse neanche quando Billy si fermò, a pochi centimetri, di là dalla vetrata guarnita di sbarre, continuò a fissarlo freddamente senza mutare espressione. La porta non si aprì. Billy, non azzardandosi ad aprire bocca, alzò la tavoletta in modo da far vedere il nome sul coperchio. Gli occhi del portiere vi si fissarono un secondo e con riluttanza toccò una delle spirali decorative dei fioroni. Una sezione scorrevole della vetrata guarnita di sbarre scivolò di fianco con il fruscio leggero di un sospiro.