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— Non sono più abituato a viaggiare a cavallo — disse. Lei si tolse il cappello e gli poggiò la testa su una spalla.

— Sono cavalli da tiro — mormorò lei. Pochi momenti dopo piombò nel sonno. Morgon le passò un braccio attorno. Per qualche minuto restò sveglio, con gli orecchi tesi. Ma ciò che udì furono soltanto i cauti rumori dei piccoli predatori notturni e il fruscio delle ali di un gufo, e mentre la luna scendeva lenta i suoi occhi si chiusero.

Si svegliarono nella luce abbagliante del sole estivo, con un rotolio di ruote e carriaggi cigolanti nelle vicinanze. Prima che avessero finito di mangiare, di lavarsi e di riportare i cavalli sulla strada questa s’era già riempita di veicoli, di mercanti a cavallo con grossi pacchi di roba, di contadini delle fattorie dell’interno che portavano i loro prodotti e animali a Caithnard, di uomini e di donne con scorte armate e bagagli adatti a un lungo viaggio che, ciascuno per le sue imperscrutabili ragioni, attraversavano il reame in direzione di Lungold.

Morgon e Raederle misero i cavalli al passo, un’andatura lenta e monotona che avrebbero dovuto sopportare per ben sei settimane. Mescolati a quel traffico così vario, talora a fianco di carretti carichi di maiali, talaltra dietro ricchi nobili su scalpitanti destrieri, la loro presenza passava inosservata. Morgon scoraggiò le chiacchiere oziose e cortesi dei mercanti rispondendo a grugniti ai loro tentativi di conversazione. Più tardi stupì Raederle insultando un ricco mercante che aveva fatto un commento sull’avvenenza di lei. L’uomo reagì con espressione irosa, stringendo forte le redini del suo cavallo; poi elargì un’occhiata agli stivali fangosi di Morgon e al suo volto impolverato, fece una risatina, s’inchinò lievemente a Raederle e passò via. Lei seguitò a cavalcare in silenzio, a testa bassa, con le redini che le penzolavano dalle dita. Chiedendosi cosa stesse pensando, Morgon le si fece accanto e le toccò un braccio. La vide alzare tranquillamente il viso, stanco e non troppo pulito.

— Tutto questo lo hai voluto tu — le disse.

Lei si limitò a fissarlo senza replicare. Infine sospirò, e parve rilassarsi un poco. — Conosci i novantanove insulti che Madir usò contro un uomo che le aveva rubato un maiale?

— No.

— Te li dovrò insegnare. In sei settimane potresti rimanerne a corto.

— Raederle…

— Smettila di chiedermi di essere ragionevole.

— Non era questa la mia intenzione!

— Sì, invece. Me lo stavi chiedendo con gli occhi.

Lui si passò una mano fra i capelli. — Qualche volta sei così irragionevole che riesco a paragonarti solo a me stesso. Insegnami questi novantanove insulti. Così avrò qualcosa a cui pensare mentre mangio polvere, da qui fino a Lungold.

Lei tacque un poco, col volto nascosto nell’ombra dell’ampio cappello. — Mi spiace — disse poi. — Quel mercante mi ha spaventato. Avrebbe potuto ferirti. So che per te rappresento un pericolo in più, ma fino ad ora non me n’ero resa davvero conto. Però, Morgon, io non posso… non posso…

— Va bene. Fuggi pure dalla tua ombra. Forse avrai più successo di quanto ne ho avuto io. — La vide distogliere lo sguardo. Per un po’ cavalcò senza parlare, osservando i riflessi del sole sulle doghe dei barili del carro che li precedeva. Infine, abbagliato, si passò una mano sugli occhi. — Raederle — disse. — Non è per me che mi preoccupo. Se c’è un modo per garantire la tua sicurezza, lo troverò. Tu sei reale, e sei accanto a me. Posso toccarti. Posso amarti. Per un anno intero, in quella montagna, non ho toccato nessuno. Davanti a me non vedo niente che io posso amare. Perfino i bambini che mi chiamarono col mio nome sono soltanto dei morti. Se tu avessi deciso di attendermi ad Anuin, io mi chiederei cosa potrebbe portarci di buono questa attesa. Ma tu sei con me, e ogni istante distogli i miei pensieri da questo futuro senza speranza per riportarli al presente, su di te… e alla fine riesco a trovare una specie di perversa felicità anche in questa polvere che mi riempie la bocca. — Si volse a guardarla. — Insegnami i novantanove insulti.

— Non posso. — La sua voce si udì a stento. — Tu mi hai fatto scordare come si fa a imprecare.

Più tardi tuttavia lui riuscì a convincerla, per ingannare la monotonia di quel lungo pomeriggio. Prima del crepuscolo lei gli insegnò sessantaquattro imprecazioni, una variopinta e dettagliata lista che copriva il ladro di porci dai capelli alle unghie dei piedi, il cui effetto finale era quello di trasformare in un porco anche lui. Poi uscirono di strada, ed a non più di cento passi ritrovarono il torrente della sera prima. Nella zona non c’erano locande né villaggi, cosicché tutti i viandanti che avevano tenuto la loro stessa velocità erano accampati nei pressi. Nella sera echeggiavano risate e note di strumenti musicali, e si sentivano gli odori della legna e della carne arrosto. Morgon risalì il corso del torrente e riuscì a prendere diversi pesci con le mani. Li pulì, li riempì con cipolle e rosmarino selvatico e tornò al bivacco. Raederle s’era fatta il bagno e aveva acceso il fuoco; sedeva lì accanto, pettinandosi i capelli bagnati. Le si avvicinò, e nel vederla sorridere gli apparve così dolce e femminile nella luce rosata della fiamma che per contrasto, e al ricordo della non troppo edificante conversazione a cui l’aveva quasi costretta quel pomeriggio, si sentì rozzo. Si inginocchiò davanti a lei, a disagio, e le poggiò accanto ai piedi i pesci avvolti dalle foglie come un’offerta. Lei gli sfiorò la guancia e la bocca con un dito.

— Scusami — le disse, in un mormorio.

— Di cosa? Di aver sempre ragione? Che cosa mi hai portato? — Svolse un cartoccetto di foglie, incuriosita. — Oh, pesce! — Mentre lui ancora imprecava in silenzio contro se stesso, Raederle gli prese il volto fra le mani e lo baciò più volte, a lungo, finché la polvere e la stanchezza di quella giornata gli scivolarono via dalla mente, e la lunga strada appena fatta divenne qualcosa di luminoso e piacevole nei suoi ricordi.

Più tardi, quando dopo cena sedettero a guardare i mutevoli giochi del fuoco, lei gli completò la lista degli insulti di Madir. Avevano trasformato anch’essi in maiale il ladro della favola, ad eccezione dei denti, degli orecchi e delle caviglie, di cui si occupavano i tre ultimi insulti, allorché dei lenti accordi d’arpa echeggiarono nella notte mescolandosi al mormorio del torrente. Ascoltandoli Morgon si distrasse senza volerlo da ciò che stava dicendo Raederle, e quando lei gli mise una mano su una spalla ebbe un sussulto.

— Morgon!

Lui si alzò di scatto, e allontanatosi dal fuoco di qualche passo fissò gli occhi nel buio. Appena ebbe abituato la vista all’oscurità vide che non distante c’era un gruppo di gente accampata sotto un’enorme quercia, davanti alla quale avevano acceso alcuni falò. L’aria era immobile, le voci e la musica risaltavano nitide e fragili nel silenzio. Per un attimo ebbe l’impulso, selvaggio e improvviso di spezzare le corde di quell’arpa con un pensiero e lasciare che la quiete tornasse a stagnare nella notte.

Dietro di lui Raederle disse: — Tu non suoni mai l’arpa.

Non le rispose. Da lì a poco la musica d’arpa cessò, e trasse un profondo respiro. Si volse e scoprì che Raederle sedeva accanto al fuoco con gli occhi fissi su di lui. La ragazza tacque finché non tornò ad accovacciarlesi accanto, poi disse di nuovo: — Non suoni mai l’arpa.

— Non posso farlo qui. Non su questa strada.

— Non sulla strada e non sulla nave, anche se là sei stato senza niente da fare per quattro giorni…

— Qualcuno avrebbe potuto sentirmi.

— Non a Hed e non ad Anuin, dove eri al sicuro…