Morgon lo riconobbe: il mercante con cui aveva parlato molto tempo prima, a Hlurle, in un piovoso giorno d’autunno, dopo aver lasciato a cavallo le colline di Herun. In tono brusco replicò: — Ma di che state parlando? Qui non piove da settimane. Toglietemi la mano dalla spalla, se non volete che la porti con me.
— Signore, signori! — intervenne il locandiere. — Niente risse nel mio locale, prego — Il mercante si volse a prendere due boccali di birra e ne poggiò uno sul bancone di fronte a Morgon.
— Non volevo offendervi. — Stupito scrutò la sua espressione. — Bevete con me, e facciamo quattro chiacchiere. Son mesi che manco da casa mia, a Kraal, e mi piacerebbe avere qualche…
Per evitare la mano di lui Morgon si girò. Il suo gomito sinistro colpì il boccale di birra, facendolo rovesciare sulle ginocchia di un mercante seduto lì accanto, e l’uomo si alzò imprecando. Qualcosa che vide sul volto di Morgon, fosse un’ombra di potere o altro, placò però il suo impulso d’ira. — Non è questo il modo di trattare della buona birra — borbottò cupamente. — Né di offrirla a un uomo. Come avete fatto ad arrivare vivo alla vostra età, con l’abilità che avete nel creare risse dal nulla?
— Pensando agli affari miei! — disse Morgon a lui e all’altro. Gettò una moneta sul banco e uscì in fretta nel crepuscolo. La sua stessa sgarbatezza gli aveva lasciato un sapore amaro in bocca. Ricordi risvegliati in lui dalle parole dei musici lo tormentavano: la lama della sua spada sollevata nella luce del tramonto, il volto dell’arpista che si alzava a guardarla. Accelerò il passo fra gli alberi, maledicendo la lunghezza di quella strada, la polvere che c’era sopra, le stelle sulla sua fronte e tutti i ricordi che come fantasmi continuavano ad angustiarlo.
Quando giunse al luogo dove s’erano accampati per poco non lo oltrepassò senza riconoscerlo. Si fermò, stupefatto. Raederle e i due cavalli erano spariti. Per una frazione di secondo si chiese se, involontariamente, non l’avesse offesa al punto da costringerla a tornare ad Anuin. Ma le borse e le selle erano ancora lì dove le aveva deposte; non c’erano tracce di lotta sul tappeto di foglie secche sotto le querce. Poi sentì che Raederle lo chiamava, aggirò un cespuglio e la vide che attraversava il torrente saltando da un sasso all’altro.
Il volto di lei era rigato di lacrime. — Oh, Morgon! Ero qui che riempivo d’acqua la pentola, poco fa, quando due cavalieri per poco non mi hanno travolta. Ero così furiosa che non mi sono accorta che montavano i nostri cavalli finché non hanno attraversato il torrente. Così io…
— Tu li hai inseguiti? — chiese, incredulo.
— Ho pensato che fra gli alberi avrebbero pur dovuto rallentare. Ma invece sono spariti al galoppo. Mi dispiace.
— A Ymris li rivenderanno a buon prezzo — borbottò Morgon.
— Morgon, non devono essere distanti più di un miglio. Tu potresti raggiungerli facilmente.
Esitò, fissando il volto stanco e addolorato di lei. Poi si volse e raccolse le borse. — L’esercito di Hereu ne ha più bisogno di noi.
Evitò di guardare la ragazza, ma sentiva il silenzio di lei come qualcosa di tangibile. Aprì una delle borse e imprecò contro se stesso, rendendosi conto solo allora di aver scordato di comprare del cibo.
Lei mormorò: — Stai dicendo che dovremmo fare a piedi tutta la strada da qui a Lungold?
— Se è questo che vuoi. — Le sue dita ebbero un lieve tremito, mentre sganciava le fibbie dell’altra borsa.
Infine la sentì muoversi. La giovane donna andò al torrente e riempì il pentolino d’acqua. Quando tornò disse, con voce neutra: — Hai portato il vino?
— Me ne sono dimenticato. Ho dimenticato anche il cibo. — Prima che lei potesse replicare, si volse di scatto. — E non posso tornare indietro. Non senza compromettermi in una rissa da osteria.
— Ti ho forse chiesto di farlo? Non ho neppure aperto bocca. — Si chinò accanto al fuoco e vi gettò sopra dei ramoscelli. — Io ho perduto i cavalli, tu hai dimenticato di comprare da mangiare — mormorò. Sedette e chinò il volto sulle ginocchia. — Morgon — disse dopo un poco. — Mi dispiace. Io sarei capace di arrivare a Lungold strisciando, piuttosto che cambiar forma.
Lui abbassò gli occhi a fissarla. Si volse, girò intorno al fuoco e andò a fermarsi accanto al massiccio e contorto tronco di un albero. Poggiò la fronte contro la corteccia, cercando di guardare in se stesso e di capire cos’era diventato dopo aver assunto i poteri di cui disponeva. Per un momento si chiese se non fosse un errore pretendere cose simili da lei; ebbe il dubbio che perfino i suoi poteri, trovati in circostanze tanto oscure, fossero qualcosa di sospetto. Poi quelle incertezze svanirono pian piano, lasciando il posto, come sempre, all’unica cosa cui poteva aggrapparsi: la fragile e imperativa struttura etica appresa alla Scuola degli Enigmi.
— Non puoi fuggire da te stessa.
— Tu stai fuggendo. Forse non da te stesso, ma dall’enigma che hai dietro le spalle e che non hai mai affrontato.
Si girò stancamente a osservarla. Dopo un poco sistemò i ceppi sul fuoco che si stava abbassando. — Prenderò qualche pesce. Domani mattina. Tornerò alla locanda a comprare quel che ci serve. Forse potrò vendere le selle. Abbiamo bisogno di altro denaro. La strada per Lungold è lunga.
Il giorno successivo si scambiarono pochissime parole. L’afa estiva gravava loro addosso anche quando uscivano di strada per camminare all’ombra degli alberi. Morgon s’era caricato delle due grosse borse, e solo allora s’accorse di quanto fossero pesanti. Le cinghie gli tormentavano le spalle come il loro litigio gli tormentava i pensieri. Raederle si offrì di portarne una, ma le rispose in tono così brusco che lei non si azzardò a proporlo più. A mezzogiorno mangiarono tenendo i piedi a mollo nel torrente. L’acqua fresca ristorò anche il loro umore, e parlarono un poco. Quel pomeriggio la strada apparve ancor meno frequentata; riuscivano a sentire i cigolii dei carri fin da prima che fossero in vista. Ma la calura era intensa, quasi insopportabile. Prima che scendesse il tramonto furono costretti a fare frequenti soste al torrente.
Sul far della sera trovarono un posto buono per accamparsi. Morgon lasciò Raederle seduta coi piedi nell’acqua e andò a caccia, sotto le sembianze di un falco. Su un prato sorprese una lepre che sonnecchiava agli ultimi raggi del sole e la uccise. Al ritorno trovò Raederle immobile dove l’aveva lasciata. Pulì la lepre e la infilò su uno spiedo di legno verde, mettendola sul fuoco. Guardò Raederle; seduta a capo chino e in silenzio fissava l’acqua. Infine si decise a chiamarla.
Lei si alzò, inciampando fra i sassi della riva. Lo raggiunse a passi lenti e sedette molto vicina al fuoco, tirandosi intorno ai piedi l’orlo bagnato della lunga gonna. Nella luce rosata lui la fissò, dimenticando di continuare a girare lo spiedo. Era seria e quasi inespressiva, con lievi ombre di sofferenza sotto gli occhi. Nel sentirlo sospirare gli restituì lo sguardo, con una luce tesa in cui si poteva leggere un chiaro avvertimento. Ma lui era troppo preoccupato per farci caso.
— Perché non mi hai detto che soffrivi tanto? Fammi vedere i piedi.
— Lasciami stare! — rispose, in tono così secco e orgoglioso che lo sbalordì. — Ti ho detto che posso camminare fino a Lungold, e lo farò.
— E come? — Si alzò, con la gola stretta dall’ansia. — Andrò a cercare un cavallo per te.
— Con cosa pensi di pagarlo? Non siamo neppure riusciti a vendere le selle.
— Posso assumere la forma di un cavallo. Tu mi cavalcheresti.
— No! — La voce di lei tremò della stessa strana angoscia. — Non devi. E io non voglio cavalcare sopra di te fino a Lungold. Ho detto che camminerò.
— Non sei nelle condizioni di poter camminare per dieci passi.