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— Ce la farò lo stesso. Gira lo spiedo, o la nostra cena prenderà fuoco.

Vedendo che non si muoveva, cambiò posto e si occupò dello spiedo lei stessa. Le tremavano le mani. Con gli occhi fissi sul suo bel viso dove luci e ombre si rincorrevano lui si chiese se la conoscesse davvero a fondo. — Raederle — supplicò. — In nome di Hel, cosa vuoi fare? Non puoi camminare, così ridotta. Non vuoi cavalcare, non vuoi cambiar forma. Vuoi tornare ad Anuin?

— No! — La voce le si ruppe, come se l’avesse offesa. — Forse non sono brava con gli enigmi, però io mantengo la mia parola.

— Quale onore puoi fare al nome di Ylon, quando guardi soltanto con odio lui e l’eredità che ti ha lasciato?

Lei si piegò in avanti, e gli parve che stesse per girare lo spiedo, ma invece raccolse una manciata di fuoco. — Fu un Re di An, un tempo. C’è dell’onore in questo. — La voce le tremava molto. Sulla mano le comparve un triangolo di fuoco, verticale, e sottili strisce di fiamma le scaturirono dalle dita collegandosi ad esso. — Io giuro, sul suo nome, che non ti permetterò mai di lasciarmi.

D’improvviso lui si accorse di quel che stava facendo. Raederle finì il suo lavoro e glielo porse: un’arpa fatta di fuoco, immobile e balenante sul suo palmo. — Tu sei il Maestro degli Enigmi. Se hai tanta fede in essi, dimostramelo. Non sai neppure fronteggiare il tuo stesso odio, e chiedi a me di rispondere a degli enigmi. C’è un nome per un uomo come te.

— Folle — disse, senza toccare l’arpa. Guardò i barbagli di luce che si rincorrevano fra le corde. — Alla fine conosco il mio nome.

— Tu sei il Portatore di Stelle. Perché non puoi lasciare che io faccia da sola le mie scelte? Chi io sia ha poca importanza.

Lui la fissò da sopra l’arpa di fiamma. Qualcosa che disse o pensò senza rendersene conto la fece dileguare in frammenti sulla sua mano. Aggirò il fuoco, la afferrò per le spalle e la tirò in piedi.

— Come puoi dirmi questo? In nome di Hel, di cos’è che hai paura?

— Morgon…

— Non ti si chiede di cambiar forma in qualcosa che né tu né io riusciremmo a riconoscere!

— Morgon! — Aggrappata lui cercò di scuoterlo, come nel disperato tentativo di fargli aprire gli occhi. — C’è proprio bisogno che te lo dica? Io non sto fuggendo da qualcosa che odio, ma da qualcosa che voglio. Il potere di quell’eredità bastarda. Io lo voglio. Il potere che dilaga attraverso Ymris, che cerca di distruggere il reame e te… Io me ne sento attratta. Ne sono legata. E amo te. L’esperto di enigmi. Il Maestro. L’uomo che deve battersi contro quella stirpe, quell’eredità. Tu dovresti tenermi lontana da cose che puoi soltanto odiare.

— No — sussurrò lui.

— I governatori della terra, i maghi di Lungold… come posso andare davanti a loro? Come posso dir loro che io sono della razza dei tuoi nemici? Come potrebbero aver fiducia in me? E come posso io stessa aver fede in me, mentre desidero un simile terribile potere…

— Raederle! — Alzò una mano a sfiorarle il viso e le asciugò le lacrime, cercando di vederla chiaramente. Ma le ombre e i riflessi del fuoco le confondevano i lineamenti, facendo di lei una persona che aveva l’impressione di non aver mai visto a fondo, una persona che non riusciva a vedere del tutto neppure adesso. In quel viso c’era qualcosa che lo eludeva, che svaniva mentre tentava di toccarlo. — Non ho mai preteso nulla da te, se non la verità.

— Tu non hai mai saputo cosa mi stavi chiedendo.

— Io non lo so mai. Mi limito a chiederlo. — La luce del fuoco che balenava fra loro gli parve contenere la risposta verso cui la sua mente brancolava. D’improvviso quei riflessi gli parvero parte di lei, della donna per cui degli uomini erano morti nella torre di Peven, della donna che aveva conformato la sua mente al fuoco, che lo amava e che litigava con lui, e che era attratta da un potere che avrebbe potuto distruggerlo. I pezzi di quell’enigma sembravano lottare l’uno contro l’altro. Poi ognuno scivolò al suo posto, e lui vide i volti dei cambiaforma che aveva conosciuto: Eriel, l’arpista Corrig morto per sua mano, i cambiaforma con cui aveva lottato nel Monte Isig. Un brivido di paura e di meraviglia lo percorse. — Se tu vedi… se vedi in loro qualcosa che vale — mormorò, — allora, in nome di Hel, cosa sono?

Stretta a lui tacque un poco; il suo volto bagnato di pianto parve irrigidirsi. — Io non ho detto questo.

— Sì, l’hai detto.

— Non è vero. Non c’è niente che abbia valore nel loro potere.

— Sì che c’è. Lo senti dentro di te. Ed è quello che vuoi.

— Morgon…

Incerta abbassò le mani. Lui la tenne per le spalle, chiedendosi cosa dire per ottenere la sua fiducia, e qualche istante dopo cominciò a capire con quali argomenti avrebbe potuto farsi ascoltare.

La lasciò, allungò una mano di lato e l’arpa stellata si materializzò dal nulla, appesa al polso per la cinghia. Nell’impugnarla sentì che le sue dita ne ricordavano ancora ogni particolare. Andò a sedersi a qualche passo dal fuoco, mentre la giovane donna lo fissava muta e immobile. Le tre stelle sulla faccia anteriore dello strumento, enigmatiche e senza risposte, polarizzarono per un poco il suo sguardo. Poi se la sistemò fra le braccia e cominciò a suonare. Mentre eseguiva scale di note dapprima stentò a concentrarsi, troppo conscio della silenziosa e attenta presenza di lei. Infine le sue dita ricordarono ritmi e ritornelli, e strapparono isolati frammenti di canzoni alle corde che tacevano da un anno. L’antica e perfetta voce dell’arpa che soltanto lui poteva suonare tornò a riempirlo di un incanto sempre inatteso. Lei gli si avvicinò lentamente, passo dopo passo, finché si accovacciò al suo fianco. Col fuoco alle spalle, il suo volto era un’ombra imperscrutabile.

Ma era un altro il suono d’arpa che echeggiava nell’oscurità della sua memoria. E più suonava per scacciare quel ricordo, più esso lo tormentava: un arpeggiare lontano, artistico e prezioso, che era giunto a lui da oltre la tenebra, da oltre il mormorio delle acque sotterranee che da migliaia d’anni scorrevano dal niente verso il niente. Il fuoco dietro le spalle di Raederle divenne sempre più piccolo, un barlume di luce che si allontanava e che svanì, lasciando il posto a quel buio terribile che lo aveva accecato. La voce tornò a farlo sussultare, risuonando fra le rocce in echi aspri e spiacevoli. Non aveva mai visto il volto. Brancolando alla cieca sentì soltanto roccia umida sotto le dita. La voce arrivava sempre inaspettata, malgrado la tensione con cui aguzzava gli orecchi in cerca dei passi. Lo costringeva a restare in perpetua attesa, disteso sulla pietra, rigido e pronto allo scontro. Ma con la voce arrivava la sonda mentale a cui non poteva opporsi, e allora il solo modo per combatterla era il dolore: battere i pugni sulla roccia per annientare i pensieri nel dolore. E arrivavano le domande, interminabili, a cui opponeva una furia disperata. Poi la furia s’era mutata in terrore, quando aveva sentito il fragile e complesso istinto del governo della terra morire dentro di lui. Aveva risposto, urlato, taciuto, risposto ancora… e aveva udito l’arpa.

Riaprì gli occhi, immobilizzandosi. Premuto contro il montante dello strumento lo zigomo destro gli doleva. Raederle sedeva accanto a lui e gli teneva un braccio intorno alle spalle. Le note dell’arpa continuavano a echeggiargli nella mente. Cercò di risvegliarsi da quell’incubo e di scacciarle, ma non se ne andarono. Poi Raederle rialzò la testa ed egli capì, mentre il sangue gli si gelava, che anch’ella stava ascoltando le stesse note.

Gli bastò un attimo per riconoscere quell’arpeggiare lieve, familiare. Si alzò in piedi, pallido e tremante, e raccolse uno dei rami che bruciavano nel fuoco. Raederle lo chiamò, ma non poté risponderle. La giovane donna cercò di seguirlo, a piedi nudi e vacillando sul terreno irregolare, ed egli non la aspettò. Accelerò il passo seguendo il suono di quell’arpa attraverso il bosco, oltrepassò la strada e s’immerse fra i cespugli, sbucando in una radura dove svegliò un mercante addormentato sotto il suo carro. Avanzò nel sottobosco a zig zag, mentre il suono di quello strumento sembrava provenire ora da una direzione ora da un’altra. Ad un tratto la sua torcia improvvisata illuminò una figura, seduta sotto un albero oltre uno spazio coperto di foglie morte: era un uomo, e fra le mani teneva un’arpa. Morgon si fermò fra la vegetazione col fiato mozzo e incapace perfino d’imprecare. Lentamente l’arpista sollevò il volto verso la luce.