Выбрать главу

Morgon era come paralizzato. Tenne alta la torcia nella notte mentre l’arpista, restituendogli lo sguardo, continuava a muovere pian piano sulle corde dell’arpa le mani stranamente contratte e arrossate, simili a strumenti ormai fuori uso.

CAPITOLO QUINTO

— Deth! — sussurrò Morgon.

Le mani dell’arpista parvero raggelarsi. Il suo volto era così sparuto e tormentato che di familiare in lui non c’era rimasto che la fine struttura delle ossa e lo sguardo. Non aveva cavallo né bagaglio, e tutto ciò che possedeva era all’apparenza quell’arpa di legno scuro, adorna soltanto della sua linea spoglia ed elegante. Le sue mani contorte rimasero ancora un istante sulle corde, poi abbassarono l’arpa sul terreno erboso al suo fianco.

— Morgon! — La voce era rauca per la stanchezza e la sorpresa. Subito però aggiunse, con una cortesia che lasciò il giovane senza parole: — Non volevo disturbarti.

Morgon era ancora senza parole. L’angosciosa, perfetta musica d’arpa che continuava a torcersi come un incubo nel fondo oscuro della sua mente, contrastava ora in modo stridente con l’arpeggio tutto esitazioni e stonature che aveva udito nelle notti precedenti. In lui c’era l’impulso di gridare furiosamente, l’impulso di voltarsi e andar via senza una parola, l’impulso di fare un passo avanti e di fare una domanda. Fu quest’ultima soluzione che scelse, senza quasi rendersene conto.

— Che ti è successo? — La sua stessa voce gli sembrò strana, imprevedibilmente calma dopo quel turbine di sensazioni. L’arpista si esaminò le mani, tenendole sulle ginocchia come se gli pesassero troppo.

— Ho avuto una discussione con Ghisteslwchlohm — disse.

— Non avevi mai perso, in una discussione. — Fece un altro passo avanti, teso e silenzioso come un animale selvatico.

— Non ho perso neppure questa. In caso contrario ci sarebbe un arpista di meno nel reame.

— Sembra che tu non muoia facilmente.

— Già. — Lo scrutò con attenzione, e Morgon tornò a fermarsi. Gli occhi dell’arpista avevano lo sguardo di chi sa ciò che vuol sapere e non intende domandare niente. Dopo qualche istante il ramo cominciò a bruciare troppo vicino alle dita di Morgon, che lo gettò al suolo in un mucchio di foglie secche. Il focherello si sviluppò rossastro, gettando più ombre che riflessi sul volto di Deth, e a Morgon sembrò di rivederlo come l’aveva visto in altri tempi, dinnanzi ad altri fuochi. Tacque, a disagio, poi fece qualche passo avanti e gettò dei rametti sul fuoco. Con un piede vi accumulò sopra le foglie, tracciandovi intorno un circolo di terreno nudo.

— Dove stai andando? — chiese poi.

— Torno dove sono nato. A Lungold. Non ho altro posto dove andare.

— Vai a Lungold a piedi?

Lui scosse le spalle, ebbe un tremito nelle mani. — Non posso cavalcare.

— Non puoi neanche suonare l’arpa. Che pensi di fare a Lungold?

— Non lo so. Chiedere l’elemosina.

Morgon lo fissò per un poco in silenzio. Le sue dita trovarono distrattamente una ghianda, e la gettò nel fuoco. — Tu hai servito Ghisteslwchlohm per seicento anni. Mi hai consegnato a lui. È tanto ingrato?

— No — rispose, spassionatamente. — Era sospettoso. Tu mi hai lasciato andar via vivo da Anuin.

Frugando fra le foglie morte le mani di Morgon tremarono. Per un attimo ebbe l’impressione d’essere attraversato da qualcosa di simile a un vento dall’odore lieve e aspro, che nato nelle desolazioni del nord avesse attraversato il reame portando appena un cenno della sua esistenza in quella silenziosa notte estiva. Lasciò che le sue mani si muovessero; un ramoscello gli si spezzò fra le dita. Lo depose fra quelli che bruciavano e sentì l’impulso di fare caute domande, come se stesse cominciando una gara di enigmi con qualcuno la cui abilità gli era ignota.

— Ghisteslwchlohm era ad An?

— È stato nell’entroterra, dopo che ti sei liberato, per rafforzare il suo potere. Non sapeva dove tu fossi; ma poiché per lui la mia mente è sempre aperta mi ha trovato con facilità, in Hel.

Morgon alzò gli occhi. — La tua mente è ancora vincolata alla sua?

— Così presumo. Non ha più bisogno di me, però tu potresti essere in pericolo.

— Non è venuto a cercarmi ad Anuin.

— Io l’ho incontrato sette giorni dopo esser partito da Anuin. Non sembrava probabile che tu fossi sempre là.

— C’ero. — Gettò sul fuoco un’altra manciata di rametti e li guardò torcersi fra le fiammelle che li divoravano. Tornò a osservare le mani dell’arpista. — Ma cosa ti ha fatto, in nome di Hel?

— Ha costruito un’arpa per me, visto che tu avevi distrutto la mia e che non ero riuscito a procurarmene un’altra. — Nei suoi occhi ci fu una luce di sofferenza, o forse il ricordo di qualcosa che in qualche modo lo divertiva freddamente. Abbassò la testa, e i suoi lineamenti tornarono in ombra. Senza alcuna emozione mormorò: — L’arpa era fatta di fuoco nero. Sulla faccia anteriore c’erano tre stelle che ardevano al calor bianco.

Morgon deglutì saliva. — E tu l’hai suonata! — sussurrò.

— Mi ha costretto a farlo, mentre ero ancora semiconscio. Ho sentito la sua mente che mi strappava dalla memoria quel che era accaduto ad Anuin, i ricordi dei mesi in cui tu e io viaggiammo insieme, quelli degli anni e dei secoli in cui l’ho servito, e poi… L’arpa aveva una voce strana e tormentata, come le voci che udivo di notte quando cavalcavo attraverso Hel.

— Ti ha lasciato vivere.

Lui appoggiò la nuca al tronco, rispondendo allo sguardo di Morgon. — Non ha trovato motivi per fare il contrario.

Morgon tacque. Davanti a lui il fuoco faceva crepitare i ramoscelli con un rumore di ossicini spezzati. D’improvviso ebbe freddo, malgrado l’aria tiepida, e si accostò di più alle fiammelle. Nel buio dei cespugli comparvero gli occhietti rossi di un animale notturno, sbatterono un paio di volte e sparirono. Il silenzio intorno a loro era reso pesante dai mille enigmi a cui gli sarebbe piaciuto dar voce, e sapeva che l’arpista gli avrebbe risposto soltanto con altri enigmi. Tacque un poco, protendendo le mani verso la luce del fuoco.

— Una paga poco soddisfacente per sei secoli di lavoro — disse infine. — Cosa ti aspettavi da lui, quando entrasti al suo servizio?

— Gli dissi che avevo bisogno di un padrone, e che nessuno dei Re ingannati dalle sue menzogne mi sarebbe bastato. Ci adattavamo l’uno all’altro: lui costruì un’illusione, io la sostenni.

— Era un’illusione pericolosa. Non ha mai avuto paura del Supremo?

— Quali motivi gli ha mai dato il Supremo per aver paura? Morgon allungò una mano nel fuoco e sfiorò una foglia. Lasciò le dita nel cuore della fiamma, mentre i ricordi riaffluivano in lui. — Nessuno — mormorò. La fiamma si sollevò improvvisamente alta e ruggente sotto la sua mano, come se l’attenzione di lui si fosse volta altrove. La ritrasse, mentre il fumo gli entrava negli occhi facendoli lacrimare. Poi si esaminò il palmo con una smorfia, e imprecò. — Quando non sto attento, ecco che mi brucio.

— Morgon, non ho acqua per…

— L’ho notato. — Si umettò le dita scottate, e la sua voce si fece aspra. — Non hai cibo, non hai acqua, non hai potere legale né protezione, non hai neppure abbastanza magia da proteggerti dalle ustioni. A stento riesci a far uso dell’unico oggetto che possiedi. Per un uomo che è sfuggito alla morte due volte in sette giorni, riesci a creare un’illusione d’impotenza davvero grande. — Sollevò le ginocchia e vi appoggiò i gomiti. Per un po’ rimase immobile, senza aspettarsi che l’arpista si mettesse a chiacchierare e incurante che volesse farlo o meno. Era il fuoco a chiacchierare, fra loro due, nel suo antico linguaggio che non chiedeva né proponeva enigmi. Ripensando a Raederle si disse che avrebbe dovuto tornare da lei, ma non si mosse. L’arpista sedeva come oppresso dagli anni e dalla stanchezza, immobile quanto una vecchia radice o una pietra corrosa dalla pioggia. Il fuoco, libero dal controllo mentale di Morgon, si stava spegnendo. La luce si ritraeva da lui sempre più. Infine si riscosse e alzò la testa. Le fiammelle agonizzavano fra le ceneri, e il volto dell’arpista era una chiazza d’oscurità.