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— Morgon, tu gli volevi bene — sussurrò lei. — Questa era la forza che ti legava a lui.

Morgon tacque, ripensando a quel volto incorniciato dai capelli argentei al di là del fuoco da campo e ricordando le notti in cui aveva ascoltato il silenzio dell’arpista, finché i rami degli alberi parvero intrecciarsi in una rete che ricopriva il firmamento, una rete di enigmi, un’immensa e misteriosa partita nella quale la morte di Deth era anch’essa un enigma. Infine l’odore delle erbe che Raederle gli aveva spalmato sulla guancia agì in lui come un soporifero, e senza accorgersene si riaddormentò.

Il mattino dopo a svegliarli fu l’alba, e lui cominciò a insegnarle la forma-corvo. Penetrò nella sua mente e in fondo ad essa trovò le immagini-corvo, racconti e storie circa quella forma, e ricordi che lei non sapeva neppure di avere: i neri e imperscrutabili occhi da corvo di suo padre, i rauchi versi dei corvi fra le querce nell’allevamento di maiali di Raith, i corvi che avevano volato nella storia di An, i divoratori di carogne, i portamessaggi, i guardiani di tombe, e le loro voci derisorie, indignate, assurde, poetiche.

— Ma da dove escono tutti questi corvi? — si sbalordì lei.

— Fanno parte del governo della terra di An. La forza e il cuore di An. Nulla di più.

Chiamò a sé un corvo che dormiva su un albero nelle vicinanze, e il volatile gli si appollaiò su un polso. — Riesci a entrarmi nella mente? Puoi vedere ciò che penso, attraverso i miei occhi?

— Non lo so.

— Prova. I miei pensieri vogliono essere ascoltati da te. — Aprì la mente a quella del corvo e unì ai suoi occhi i processi psichici del volatile, finché vide attraverso quegli occhi inumani due volti confusi che poté a stento riconoscere come il suo e quello di Raederle. Sentì movimenti microscopici, nitidi e precisi, fra le foglie morte del sottobosco e le radici. Cominciò a comprendere gli elementi del linguaggio dei corvi. Emise un gracidio, più curioso che impaziente. Nella sua mente vi fu poi la sensazione di quella di Raederle, come se ella fosse in lui e lo toccasse gentilmente, riempiendolo di luce. Deglutì saliva per la meraviglia. Per qualche minuto ci furono tre menti che scivolavano l’una dentro l’altra, incerte e un po’ spaurite in quell’esplorare. Poi il corvo gracidò; le sue ali nere occlusero la visione di Morgon, che restò solo nella sua mente umana, e guardò attorno in cerca di ciò che era uscito da lui. Un corvo stava fuggendo via. Un altro roteava invece in lenti circoli su di lui, e gli atterrò su una spalla. Si girò a guardare quegli occhi neri.

Un sorriso gli comparve sul volto. Il corvo dispiegò le ali e volò verso il ramo di un albero lì accanto; parve incapace di coordinare i movimenti per farvi presa, ma infine si erse appollaiandosi saldamente. Un attimo dopo il corvo si trasformò in Raederle, mezza nascosta fra le foglie, e il ramo s’incurvò sotto il peso maggiore della sua forma.

La ragazza abbassò gli occhi su Morgon dall’alto della sua posizione, stupefatta e senza fiato. — Oh, tu… smettila di ridere, Morgon! Io volo! Ho volato. In nome di Hel, e adesso come faccio a scendere?

— Spicca il volo.

— Ho dimenticato come si fa!

Lui cambiò forma e volò fino alla sua altezza, con un’ala che gli doleva per la ferita ancora aperta. Tornò alla forma umana, e il ramo scricchiolò pericolosamente sotto il suo peso facendolo imprecare. Lei ansimò: — Morgon, si sta rompendo… cadremo nel fiume! — Il suo grido si trasformò in un gracidio quando balzò in volo. Morgon la inseguì con ampi colpi d’ala. Salirono insieme nella luce del mattino, neri e veloci, e acquistarono quota sulla boscaglia finché poterono vedere il territorio che si estendeva per centinaia di miglia in ogni direzione e la lunghissima strada rettilinea che lo attraversava, tagliando il reame. Continuarono a salire, ed i veicoli dei mercanti divennero piccoli come formiche su un nastro di polvere. Poi ripresero ad abbassarsi lentamente, spiraleggiando in ampi circoli senza quasi battere le ali, e le loro evoluzioni li portarono sempre più vicini alla superficie finché non compirono un ultimo e veloce cerchio sfiorando l’acqua del fiume. Atterrarono fra le felci della riva e cambiarono forma. Un po’ ansanti, nella luce vivida e nella calura, si guardarono. Raederle sussurrò:

— I tuoi occhi sono ancora pieni di ali.

— I tuoi sono pieni di sole.

Per due settimane volarono verso occidente nella forma-corvo. Nell’entroterra la silenziosa e dorata foresta di querce si restrinse e terminò. La strada curvò a nord in un territorio in parte coperto di pini, la cui quiete sembrava indisturbata da millenni. Proseguiva fra le spoglie colline rocciose su cui il sole bruciava in toni giallastri, valicava su arcate di pietra profondi crepacci in fondo ai quali i corsi d’acqua che scendevano dai Laghi di Lungold ruggivano fra pareti di roccia consunta. I loro occhi da corvo coglievano le visioni di un panorama sconfinato, che nelle remote profondità occidentali del continente sfumava sulle vette di montagne sconosciute velate di foschia azzurrina. Di giorno il sole fiammeggiava in un cielo di zaffiro. La notte il buio spingeva le stelle da un orizzonte all’altro, come greggi di luci verso i pascoli ai confini del mondo. Le voci della boscaglia e di quel terreno pietroso su cui non alitava nessun vento erano troppo basse per poter essere udite. Il loro compagno di viaggio era il silenzio. Morgon volava dentro di esso, lo respirava, lo sentiva nelle ossa, ne avvertiva il contatto strano e profondo dentro il cuore. Nei primi giorni avrebbe voluto sfuggirlo, raggiungere la mente di Raederle pur con il vago e inarticolato linguaggio dei corvi. Poi pian piano il silenzio divenne parte del suo ritmo di volo, e infine qualcosa di simile a una muta canzone. Da ultimo, quando gli pareva d’aver quasi dimenticato il linguaggio umano e Raederle era soltanto una cosa nera e pennuta che tagliava l’aria accanto a lui, vide l’interminabile boscaglia di pini terminare e ne fu quasi sorpreso. In lontananza la grande città fondata da Ghisteslwchlohm si estendeva sulla riva del più meridionale fra i Laghi di Lungold, risplendente di tonalità ramate e bronzee sotto gli ultimi raggi del sole.

I due corvi proseguirono stancamente nell’ultima parte del loro volo. Nei dintorni della città la foresta era stata spinta indietro di molte miglia per far posto ai campi, ai pascoli e ai frutteti. Il fresco odore dei pini lasciava il posto al sentore d’humus della terra arata, e a quello dei raccolti maturi, che colpiva gli istinti da corvo di Morgon. La Strada dei Mercanti, zebrata d’ombre, nel suo ultimo miglio tagliava le coltivazioni fino all’ingresso principale della città. Il portale era un’alta e fragile arcata fatta di lucido legno scuro e pietra bianca. Le mura apparivano invece massicce, rafforzate da contrafforti granitici e garitte di legno che sovrastavano i quartieri costruiti negli ultimi secoli fuori dalla cinta muraria. Nuove strade lastricate si dirigevano verso ì bastioni, dove erano state aperte altre piccole porte; case e botteghe s’infittivano lungo di esse, e ce n’erano persino sopra le mura stesse, a testimoniare che i loro costruttori avevano dimenticato le paure a cui sette secoli addietro s’era dovuta l’erezione di mura tanto munite.

I corvi si abbassarono verso la porta principale, sotto la grande arcata. I due battenti avevano l’aria di non esser stati chiusi da secoli. Erano in massicci pannelli di quercia, con cardini poderosi e rinforzi in bronzo. Dietro di essi e nell’ombra dell’architrave, rondini e pipistrelli avevano fatto il nido in ogni angolo. All’interno la strada si diramava in un intreccio di viuzze acciottolate, lungo le quali s’allineavano taverne dalla facciata dipinta vivacemente, sale di commercio, botteghe di mercanti e di artigiani, abitazioni le cui finestre erano rallegrate da belle tendine ed elaborati vasi da fiori. Morgon aguzzò i suoi occhi da corvo oltre i tetti e i comignoli, verso la zona settentrionale della città. Il sole morente spandeva sulla superficie del lago i rossi bagliori del crepuscolo, e ormeggiati ai moli c’erano un centinaio di battelli da pesca che davano l’impressione di ardere su quelle acque di fuoco.