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Scese al suolo in un angoletto fra i battenti e il muro, e lì cambiò forma. Raederle lo seguì. Per un poco si fissarono a vicenda, ciascuno trovando qualcosa di alieno sul volto dell’altro, segnato dai lunghi silenzi e dalla solitudine dei territori attraversati. Poi Morgon ricordò che finalmente possedeva due braccia, strinse a sé Raederle e con qualche esitazione la baciò. Soltanto allora il viso di lei parve riassumere del tutto un’espressione umana.

— In nome di Hel, cosa ci è accaduto? — mormorò la ragazza. — Morgon, mi sento come se avessi fatto un sogno lungo cento anni.

— È durato due settimane filate. E adesso siamo a Lungold.

— Vorrei essere a casa mia. — Negli occhi le apparve una luce stranita. — Ma cosa abbiamo mangiato?

— Non starci a pensare. — Si guardò attorno. Il traffico attraverso il portale era quasi ridotto a zero; un solo cavaliere dall’aria stanca nelle ombre del crepuscolo stava entrando in città. La prese per mano. — Andiamo.

— Dove?

— Non lo senti all’odore? Io lo avverto come un sospiro in fondo alla mente. Odore di potere…

Fu questo a guidarli attraverso il dedalo delle stradicciole. L’abitato era tranquillo, poiché a quell’ora nelle case si cenava; i profumi invitanti che uscivano dalle taverne a cui passarono davanti li fecero sospirare languidamente. Ma non avevano denaro, e fra la tunica stracciata di Morgon ed i piedi scalzi di Raederle il loro aspetto era quello di due mendicanti. La percezione di quel potere, antico e stagnante, attrasse Morgon verso il centro della città, lungo le vie strette dove c’erano bottegucce sorprendentemente belle e case di ricchi mercanti. Tutte le strade terminavano nello stesso punto: una vastissima estensione di terreno incolto formava un pendio, lunghissimo, e alla sommità di esso troneggiavano i resti maestosi dell’antica Scuola, resi affascinanti e misteriosi dalla presenza della magia, e le mura vuote di quell’alto edificio erano ancora illuminate dagli ultimi scarlatti bagliori del sole.

Morgon si fermò. Quella vista lo aveva pervaso di uno strano e tormentoso desiderio, come di fronte a qualcosa che non aveva mai posseduto e che, fino a quel momento, non aveva immaginato di voler possedere. Incredulo sussurrò: — Non mi meraviglia che siano tornati qui. Lui riuscì a costruire anche la bellezza…

Dai muri squarciati s’intravedevano saloni che pur semidistrutti rivelavano l’antica prosperità del reame. Nelle finestre c’erano sempre frammenti di vetro colorato e infissi dorati. All’interno pareti annerite dal fuoco trattenevano ancora pannelli di frassino intagliato, d’avorio, di quercia e di cedro. L’ampiezza delle finestre ad arco faceva pensare alla presenza di ambienti tranquilli, dove un tempo avevano riposato le menti inquiete e addestrate di chi aveva cercato la saggezza alla Scuola. A sette secoli di distanza Morgon ne sentiva vivide le illusioni è le promesse: l’unione dei più potenti cervelli del reame allo scopo di condividere ogni conoscenza, per meglio disciplinare ed esplorare i loro poteri. Un’oscura nostalgia di cui non sapeva darsi ragione gli attanagliò il cuore. Tenne gli occhi fissi sulle silenziose rovine della Scuola finché Raederle gli toccò una spalla.

— Che cos’hai?

— Non lo so. Vorrei… vorrei aver potuto studiare qui. Il solo potere che abbia mai conosciuto è quello di Ghisteslwchlohm.

— I maghi ti aiuteranno — gli disse. Ma lui non trovò troppa fiducia nel suo tono. La guardò.

— Vuoi fare un sacrificio per me? Riprendi la forma-corvo, ti porterò su una spalla intanto che li cerco. Non so quali trappole o legami mentali in cui potremmo invischiarci siano ancora lì, in attesa di chi tenta di penetrare in questo luogo.

Lei annuì con aria stanca, senza commenti, e cambiò forma. Gli si appollaiò su una spalla, e lui avanzò sul terreno circostante la Scuola. Non c’erano alberi a ombreggiarlo; le erbacce crescevano stente intorno a chiazze e solchi nel terreno biancastro. Le pietre giacevano là dov’erano cadute, immobili frammenti ancora gravidi di antico potere. Nulla era stato asportato o toccato in quei lunghi secoli. Morgon ne fu certo, mentre si stava avvicinando al grande edificio centrale. Ovunque, sui resti di quella ricchezza, aleggiava come un monito lo spettro della distruzione. A passi tranquilli ma tendendo ogni sua capacità percettiva entrò nella silenziosa costruzione.

Nelle stanze che oltrepassò c’era ancora odore d’incendio. In molte trovò ossa umane mezzo sepolte sotto cumuli di macerie. Da quei resti si levavano come una nebbia sensazioni e ricordi, speranze, paure e residui di energie mentali. La fronte gli s’imperlò di sudore mentre l’ombra che lo circondava pulsava delle memorie di una battaglia devastante e disperata. Quando entrò in un vasto salone al centro dell’edificio trasalì, sentendo che le stesse pareti erano ancora impregnate della terribile esplosione d’odio e di rabbia avvenuta lì dentro. Udì il corvo borbottare raucamente, e i suoi artigli gli si piantarono più forte nella spalla. Avanzò scavalcando i resti del soffitto che ricoprivano il pavimento, e si accorse che sul fondo c’era una porta. Il battente di legno cedette alla sua spinta con un cigolio di cardini corrosi, e al di là comparve lo stanzone un tempo adibito a biblioteca. Dappertutto c’erano libri che per uno studioso sarebbero stati un tesoro senza prezzo, ma ormai in vari stadi di dissoluzione. Il fuoco aveva divorato le scaffalature, lasciando poco più che frammenti di quegli antichi testi di magia, e il tempo aveva completato l’opera. Ma nel locale stagnava puzzo di bruciato, quasi che neppure l’aria avesse osato muoversi da lì in quei sette secoli.

Oltrepassò una stanza vuota dopo l’altra. In una trovò dei crogiuoli con residui di fusioni in oro e argento, piccoli lingotti di metalli preziosi e ciò che restava di lavori in gioielleria eseguiti dagli studenti. In un’altra c’era una quantità di ossa appartenenti a piccoli animali. Nel locale successivo erano allineati dei letti. Su uno di essi giaceva lo scheletro scarnificato di un bambino. A quel punto Morgon decise di averne abbastanza, e in fretta tornò all’esterno. Nell’oscurità della sera l’aria era satura di grida silenziose, che sembravano salire dal terreno morto e arido sotto le sue scarpe.

Sedette su un grosso frammento di muratura crollato da una cantonata dell’edificio. Intorno all’altura spoglia un tempo dovevano esserci stati altri edifici minori, di legno. Gli parve di vedere l’incendio che aveva distrutto la Scuola scendere lungo di essi, attaccare la città e divorare le case, gli orti, i frutteti, spargendosi poi lungo la riva del lago e fino alla foresta in quell’ardente giornata d’estate, senza nessuna speranza che piovesse per rallentarne il dilagare. Si prese il volto fra le mani e mormorò: — In nome di Hel, cosa penso di poter fare qui? Già una volta lui ha distrutto la città; e adesso fra me e lui la distruggeremo una seconda volta. I maghi non sono tornati qui per sfidarlo: sono venuti soltanto a morire.

Il corvo gracidò qualcosa. Rialzò la testa e fissò ancora la scura mole dell’edificio in rovina. Esplorandolo con la mente percepiva solo ombre di ricordi. Tese gli orecchi e gli parve di udire gli echi di quel nome maledetto da secoli vibrare fra le mura. Curvò le spalle. — Se sono qui hanno provveduto a nascondersi bene… non so proprio dove cercarli.

La voce di Raederle gli giunse attraverso la mente del corvo in una breve osservazione. Si volse a fissare quei piccoli occhi neri e rispose: — Va bene. So che posso trovarli. Posso vedere oltre le loro illusioni e spezzare i loro legami mentali. Ma, Raederle… sono maghi esperti. Hanno raggiunto il loro potere grazie alla disciplina, alla curiosità, all’integrità… forse perfino alla gioia. Non lo hanno ottenuto gridando di dolore nelle viscere del Monte Erlenstar. Non hanno mai avuto in loro le leggi della terra, né dato la caccia a un arpista da un capo all’altro del reame per ucciderlo. Potrebbero aver bisogno che qui io combatta per loro, ma mi domando se hanno fiducia in me… — Il corvo restò in silenzio; lui gli sfiorò un’ala. — Lo so. C’è soltanto un modo per scoprirlo.