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Si alzò e rientrò nelle rovine della Scuola. Questa volta aprì tutto se stesso al tormento della distruzione e ai ricordi di una pace ormai dimenticata che stagnavano dietro di esso. Come un gioiello sfaccettato la sua mente raccolse i riflessi dei poteri rimasti fra le macerie, nelle pietre spaccate, nelle pagine ancora intatte di un libro d’incantesimi, nei più diversi antichi strumenti che trovò presso gli scheletri: anelli, strani bastoni intagliati, cristalli colmi di bagliori congelati, e ossa di animaletti e di uccelli che non poté identificare. In essi trovò vari livelli di potere, li esaminò e ne rintracciò l’origine. In un crogiuolo scoprì una massa di ferro fuso, nel profondo del quale stagnava ancora un misterioso calore, e sondandolo lo fece accidentalmente esplodere; capì che in quel ferro era contenuto uno strano potere. Lo scoppio aveva fatto volar via il corvo e staccato dal soffitto un bel po’ d’intonaco, ma lui s’era automaticamente adattato alle vibrazioni dell’esplosione, senza farle resistenza. Il corvo gracidò sbigottito nel vederlo tornare in forma umana dopo essersi smaterializzato nella pietra stessa della parete. Prese il volatile fra le mani e lo accarezzò per placarlo, meravigliato dei misteri dell’antica magia. Tutto ciò che la sua mente toccava — legno, vetro, oro, pergamena, ossa — conteneva residui di potere. Alla luce di una torcia improvvisata con frammenti del tetto seguitò a esplorare con pazienza in tutti gli angoli oscuri. Infine, verso mezzanotte, quando il corvo ormai dormicchiava sulla sua spalla, con gli occhi della mente scoprì all’improvviso l’esistenza di una porta.

L’incantesimo che gliel’aveva nascosta era molto potente: più volte l’aveva guardata, e ogni volta qualcosa aveva attratto altrove la sua attenzione distogliendolo dal desiderio di aprirla. Era in spessa quercia rinforzata con borchie di ferro, chiusa a catenaccio. Per avvicinarla era necessario aprirsi la strada fra ammassi di macerie e cumuli di legname semicarbonizzato. Intorno ad essa i muri erano abbattuti praticamente per intero, cosicché si sarebbe detto che dava accesso soltanto al nudo terreno esterno fra due piccoli edifici in rovina. Ma in realtà la porta era il frutto del potere mentale di qualcuno, che l’aveva costruita per uno scopo preciso. Si arrampicò oltre un mucchio di rottami e appoggiò le mani al battente. A sbarrargli il passaggio c’era una mente umana, ed era essa che gli dava l’illusione di legno solido sotto le dita. Prima di forzarla esitò, disturbato dalle ambiguità e dalla forza del suo stesso potere. Poi fece un passo avanti e trasformò se stesso, per il tempo di un respiro, in legno di quercia e borchie di metallo rugginoso, oltrepassando il potere che aveva dato forma a quegli oggetti.

D’improvviso intorno a lui ci fu una tenebra fitta nella quale per poco non precipitò. Celati dietro un’illusione di pavimento, degli scalini s’immergevano nel sottosuolo. La fiamma della sua torcia vacillò e s’indebolì rapidamente, come soffocata, e s’accorse che una forza arcana la stava spegnendo. Con un impulso mentale ne ravvivò la luce e la sostenne, girandola attorno.

I corrosi scalini di pietra scendevano ripidi, e molto più in basso terminarono in un pavimento di terra battuta. Oltre l’alone luminoso Morgon vide soltanto un’insondabile oscurità, uno spazio umido dove stagnava l’odore di legno marcio e di terra bagnata. Fece ardere la torcia con più forza, ma la luce sembrava indebolirsi contro veli di buio che pendevano ovunque nel silenzio. Un brivido di gelo lo pervase. Sulla sua spalla il corvo emise un gorgoglio spaurito. Intuendo il suo impulso di cambiare forma scosse subito il capo. Ubbidiente il corvo gli si strinse contro i capelli. Mentre poi faceva scaturire alte fiamme dalla torcia, cercando di scorgere i confini di quell’oscurità, qualcosa insinuò una mano invisibile nei suoi pensieri. Nelle immediate vicinanze avvertì la presenza di un potere che non aveva niente a che fare con quell’abisso sotterraneo. Confuso si domandò se il luogo altro non fosse che un’illusione.

Trattenne il respiro e cercò di esplorare il buio con la mente, ma senza risultato. Intorno a lui c’era un paradosso: una magia che si nutriva della magia. L’unica scelta che gli restava era di volgere le spalle e andarsene. Gettò a terra la torcia e la lasciò languire nelle tenebre, e quando fu spenta tornò a sondare il buio. Per quanto tempo restò lì immobile e teso, in ascolto, non avrebbe potuto dirlo; più cercava di vedere qualcosa e più era costretto a rassegnarsi alla sua cecità. Il freddo lo fece tremare, quando sollevò le mani per sfregarsi gli occhi. Il buio era una creatura immensa e senza corpo che gravava su di lui e tentava di penetrargli fin nella mente. La respinse, incapace di muoversi; ma rendendosi conto che non avrebbe saputo dove andare rimase storditamente dov’era, ottuso, silenzioso, sperando che qualcosa lo aiutasse.

Molto vicino a lui una voce disse: — La notte è soltanto qualcosa che dura fino all’alba. È un elemento, come il vento e il fuoco. La tenebra è il suo regno, segue le sue leggi, e molte creature viventi vi abitano. Tu stai cercando di separare da essa la tua mente. Questo è inutile. Accetta la realtà della tenebra.

— Non posso. — Le sue braccia ricaddero. Strinse i pugni e attese, immobile.

— Prova!

Le nocche gli divennero bianche, il sudore gli imperlò le tempie. — Io posso battermi contro il Fondatore, ma non ho mai imparato da lui come combattere questo.

— Hai attraversato la mia illusione come se neppure esistesse. — La voce era calma, vigorosa. — La mantenevo salda con tutto il potere che ancora possiedo. Soltanto altri due avrebbero potuto infrangerla, e tu sei molto più potente di entrambi. Portatore di Stelle, io sono Iff. — E poi pronunciò il suo nome intero, una serie di sillabe gutturali dal tono cantilenante. — Tu mi hai liberato dall’incantesimo del Fondatore, ed io mi metto al tuo servizio, fino alla morte. Riesci a vedermi?

— No — sussurrò Morgon. — Vorrei farlo.

Un nugolo di scintille risalì dalla torcia, circondandolo come un alone di polvere di stelle. L’impressione d’immensità svanì. La vaga consapevolezza di qualcosa fra il reale e l’irreale nacque in lui e si trasformò in un luogo solido. Poi vide un teschio umano che sembrava fissarlo, e accanto ad esso un altro, in mezzo a mucchietti biancheggianti di ossa. Si trovava in un locale circolare; le umide pareti di terra erano costellate di buchi profondi. Sentì i capelli rizzarglisi sul collo. Era sceso in una tomba, nascosta nel sottosuolo della vecchia scuola, e aveva interrotto gli ultimi maghi superstiti di Lungold mentre davano sepoltura ai loro morti.

CAPITOLO SETTIMO

Quasi subito riconobbe Nun: una donna alta e snella, con lunghi capelli grigi e un volto magro dall’aria perspicace. Stava fumando una piccola pipa ingioiellata; i suoi occhi, che lo studiavano con uno strano miscuglio di meraviglia e preoccupazione, erano appena più scuri del fumo che esalava. Dietro di lei, sotto una torcia accesa, c’era un mago alto e magro, il cui volto dall’ossatura fine era rugoso e accigliato come quello di un Re temprato da cento battaglie. Aveva tracce d’oro nei lunghi capelli bianchi, ed i suoi occhi brillavano vividi come fiamme azzurre. Dava l’impressione di fissare Morgon da un lontano passato, quasi che per secoli fosse stato tormentato dalla visione delle tre stelle che ora scorgeva. Inginocchiato presso uno dei loculi della parete c’era un mago dagli occhi scuri, col volto magro e acuto come quello di un falco. A Morgon parve cupo e orgoglioso, finché incrociando il suo sguardo non scorse in esso l’ombra di un sorriso ironico. Si volse al mago alto e scarno che gli stava accanto, quello la cui voce sembrava appartenere a un Maestro di Caithnard. Appariva ascetico, fragile, ma nel vederlo fare qualche passo avanti Morgon sentì che in quel corpo sottile c’era un’energia sorprendente.