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— Nobile, il mio nome è Goh. Questo è Teril Umber, figlio dell’Alto Nobile Rork Umber di Ymris. Mi sono presa la responsabilità di condurre in città lui e i suoi guerrieri. — Dietro la calma del suo sguardo c’era una lieve tensione. Morgon osservò l’uomo in silenzio. Era giovane, ma appariva indurito dalle battaglie e piuttosto stanco. Ignorando la sua occhiata sospettosa Teril Umber gli rivolse un leggero inchino di cortesia.

— Nobile, Hereu Ymris ci ha mandati a ovest il giorno prima… il giorno prima di perdere, a quanto ho udito, la Piana del Vento. Soltanto ora questa notizia mi è stata data, dall’Erede della Morgol.

— Vostro padre era a Piana del Vento? — domandò Morgon. — Io l’ho conosciuto.

Teril Umber annuì stancamente. — Sì. Non ho idea se sia sopravvissuto o meno. — Poi le sue spalle coperte dalla polverosa cotta di maglia si raddrizzarono. — Il Re era preoccupato sapendo che qui vi sono dei mercanti e cittadini inermi; un tempo ha navigato molto coi mercanti. E naturalmente voleva mettere a vostra disposizione tutti gli uomini di cui poteva privarsi. Siamo venuti in centocinquanta, e se ce ne sarà bisogno ci uniremo alle guardie della Morgol per difendere la città.

Morgon annuì. Quel volto magro e sudato su cui spuntava la barba di molti giorni aveva un’aria franca e insospettabile. — Disse: — Spero che questa necessità non si presenti. Il Re è stato generoso, mandando qui uomini che potevano essergli utili sul campo.

Lui strinse i denti. — Ancora non immaginava quanto terribile sarebbe stata la battaglia.

— Mi dispiace per vostro padre. Fu molto gentile con me.

— A volte parlava di voi… — Scosse il capo, passandosi una mano fra i capelli rossi. — Ne ha passate di peggio — disse, senza molta speranza. — Be’, sarà meglio che parli con Lyra e sistemi gli uomini prima che sia buio.

Morgon si volse a Goh. Il sollievo che le vide sul volto gli disse quanto era stata preoccupata. — Per favore, informa Lyra che con le mura ho quasi finito.

— Sì, Nobile.

— Ti ringrazio.

La ragazza annuì, con rude timidezza, e d’un tratto sorrise. — Di nulla, Nobile.

Mentre il suo lavoro sui bastioni proseguiva, ed il giorno si spegneva in un tramonto dai colori intensi, cominciò a sentirsi circondato da emanazioni di potere. Il mago che silenziosamente lavorava con lui sull’altro lato delle mura rafforzava le pietre prima che egli le toccasse, riempiva le fessure con grigie illusioni di granito, raddrizzava sezioni di muratura puntellandole con una forza invisibile. La cinta dei bastioni non aveva più l’aria d’aver perso una battaglia secolare contro le intemperie. Si ergeva salda, compatta, nuovamente distesa intorno alla città che difendeva con spavalda e incrollabile alterigia.

Morgon insinuò il suo potere fra pietra e pietra per cementare le ultime crepe nell’antica calcina; poi si appoggiò sfinito a una muraglia e si passò le mani sul viso. Poteva sentire l’odore umido del tramonto sollevarsi dai campi. La tranquillità di quel crepuscolo e il sereno cinguettare degli uccelli riportarono in lui le immagini di Hed. Solo il lontano gracidio di un corvo gli impedì di mettersi a dormicchiare seduto a terra. Si alzò e si diresse verso una delle due grandi porte che aveva lasciato aperte. Poco al di fuori di essa, oltre l’arcata, c’era un uomo con un corvo su una spalla.

Era alto, piuttosto anziano, con corti capelli grigi e un volto rugoso dall’aria dura. Stava parlando al volatile nel linguaggio dei corvi, di cui anche Morgon conosceva qualcosa. Mentre il corvo rispondeva la stretta gelida che da quel mattino attanagliava l’animo di Morgon si sciolse, e gli parve che il suo cuore si rilassasse in un luogo confortevole, forse nella stessa mano di quel vecchio mago, segnata dalle cicatrici-vesta. Si avviò da quella parte con calma, quasi cullato dal potere che sentiva emanare dal mago e dalla dolcezza che sembrava mostrare verso Raederle.

Ma prima di attraversare il portale vide il mago interrompersi a metà di una frase e gettare in aria il corvo, gridando qualcosa che lui non riuscì a capire. Subito dopo l’uomo scomparve. Senza fiato, Morgon ebbe l’impressione che il tramonto stesso arrivasse lungo la Strada dei Mercanti: senza rumore un’ondata di cavalieri il cui colore era quello del crepuscolo stava avanzando verso la città. Paralizzato dallo stupore vide una luce d’oro liquido spandersi sul portale sopra di lui. Il bastione cominciò a tremolare; dalle pietre che crepitavano ondeggiando esplose un’onda di potere che sconvolse i ciottoli della pavimentazione e scaraventò Morgon in ginocchio. Si rialzò di scatto e si volse.

Nel cuore della città le fiamme ardevano alte.

CAPITOLO OTTAVO

Rientrò in città appena in tempo, perché due soldati di Ymris stavano già compiendo uno sforzo pertinace per chiudere il portone. I cardini gemevano, schizzando fuori la ruggine accumulata per secoli, ed i battenti di quercia scavavano solchi al suolo sollevando il terriccio. Morgon li chiuse con un pensiero così violento che il suo cuore rimbombò come l’architrave. Richiamata da quel flusso di potere una mente, familiare e mortale, raggiunse la sua da lontano. Nell’aria scura dinnanzi a lui roteò una colonna di vampe bianche e azzurre, così vorticosa e affascinante che riuscì solo a fissarla senza fiato. Ma un attimo dopo gli parve che tutte le ossa del suo corpo volassero via a pezzi, mentre nel cervello qualcosa gli bruciava come una stella. D’impulso proiettò se stesso nel muro di pietra che aveva alle spalle, e lasciò fluttuare la mente in quella cieca immobilità. Il potere s’infranse contro la parete e scivolò via. Come se recuperasse dalla notte le sue ossa una per una Morgon si rimaterializzò, e stordito comprese d’essere ancora vivo. Uno dei soldati, col volto insanguinato, lo aiutò a rialzarsi. L’altro giaceva morto nella polvere.

— Nobile…

— Io sto bene — ansimò. Scagliò i suoi pensieri fuori dall’attimo di spaziotempo in cui si trovava. Appena in tempo, perché quando la seconda lancia d’energia squarciò il tramonto riuscì a evitarla smaterializzandosi, e si trasportò a poca distanza dalla grande Scuola in fiamme. La gente correva per le strade verso le porte della città: guardie della Morgol, guerrieri di Ymris, commercianti, bottegai e pescatori, tutti s’erano armati e sembravano animati da una ferrea determinazione. Sul bordo dell’immenso spiazzo deserto che circondava l’edificio c’erano dei ragazzini, come ipnotizzati dal lingueggiare delle fiamme che si riflettevano sui loro volti in ondate rossastre. Ad un tratto i muri della casa alle loro spalle si scossero, una cascata di mattoni e calcinacci grandinò in strada, ed essi si dispersero gridando di spavento.

Morgon richiamò dalle profondità del suo subconscio tutta l’energia di cui poteva disporre, ne fece roteare il flusso dentro di sé nutrendolo e aumentandone le dimensioni, finché sentì che la terribile spirale di quel potere rischiava di strappargli via i pensieri dalla mente. Quando lo scagliò avanti esso fu un crepitante fulmine di luce diretto contro l’entità che si acquattava nella Scuola, lo vide sparire saettando fra i muri diroccati e attese l’esplosione, ma nulla accadde. Un attimo dopo esso riapparve in un arco guizzante e lampeggiò verso Morgon con la stessa mortale intensità. Lui lo fissò incredulo per una frazione di secondo, poi aprì la mente per riassorbirlo. La saetta d’energia implose nelle tenebre dentro di lui. Ma accecato dal suo lampeggiare non si era accorto che dietro di essa ne era lingueggiata fuori un’altra, e colta di sorpresa la sua mente ne subì l’abbagliante impatto. Il colpo lo fece rotolare sul selciato, cieco e rantolante in cerca d’aria, mentre soltanto l’intuito lo avvertiva dell’arrivo di un secondo violento fulmine d’energia. Proiettò la sua identità di nuovo nella pietra, fra le fessure del selciato sotto di lui, nell’oscurità e nel silenzio del terreno, e intanto che si smaterializzava sentì l’acciottolato che gli esplodeva attorno. Una scheggia riuscì a colpirlo a una guancia, ma quasi non se ne accorse. Il suo corpo si mescolò alla terra, ed egli fu conscio soltanto dell’immobilità che lo circondava e delle piccole creature che vivevano in quel mondo senza luce. La presenza delle talpe e dei vermi, degli insetti e delle radici, penetrò come un flusso di ottusa calma nella sua mente sconvolta e pian piano la placò. Quando infine riemerse alla superficie gli parve che il mondo si fosse fatto più scuro, pervaso appena da minuscoli e silenziosi barbagli di luce. Lasciò che i suoi pensieri fossero quelli primitivi e informi di un verme della terra, e animato soltanto da essi s’incamminò nel buio.