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Morgon li dovette inseguire col pensiero come con una rete, per imbrancare e ricacciare nell’oblio le spiacevoli creature da lui create prima che spargessero il panico in città. Lo sforzo di ricatturare quelle che volavano come orridi pipistrelli o avanzavano come turbini di pulviscolo richiese tutta la sua attenzione. Quand’ebbe finito la sua mente risuonava dei nomi e delle parole magiche che aveva dovuto ritirare in sé. Riempì i suoi pensieri di fuoco, dissolse in esso ciò che restava di quei poteri e ne trasse forza e chiarezza. Poi si rese conto, col batticuore, che intorno a lui c’era il buio quasi assoluto.

Uno strano silenzio aleggiava sul terreno desolato. Fra le macerie mucchi di rottami e calcinacci surriscaldati rosseggiavano ancora, ma intorno alla Scuola la notte era priva di rumori, e alzando gli occhi poté vedere le stelle. Tese gli orecchi, ed il solo vocio che udì proveniva da strade lontane in cui evidentemente si stava combattendo. Di nuovo si mosse a passi felpati, ed entrò nel salone.

L’interno era oscuro e immobile come le caverne sotto il Monte Erlenstar. Fece un tentativo di illuminare quella tenebra, ma non riuscendo a vincerla rinunciò subito. D’impulso allora materializzò la spada stellata, l’afferrò per la lama e la tenne dinnanzi a sé, girando attorno le tre stelle; da tutto ciò che ancora ardeva richiamò luce e calore, e l’elsa proiettò tre raggi rossi che nell’oscurità gli mostrarono la figura di Ghisteslwchlohm.

Senza dir parola si fissarono l’un l’altro. In quella luce innaturale il Fondatore appariva sparuto, con la pelle tesa sulle ossa del volto. La sua voce suonò stanca, né remissiva né minacciosa, quando imprevedibilmente disse: — Ancora non riesci a vedere nel buio.

— Imparerò.

— Devi assorbire la tenebra… tu sei un enigma, Morgon. Dai la caccia a un arpista in tutto il reame per ucciderlo perché detesti la sua musica, e non vuoi uccidere me. Avresti potuto farlo quando legavi la mia mente, ma non l’hai fatto. Potresti provarci adesso, ma non vuoi. Perché?

— E tu non vuoi uccidere me. Perché?

Il mago emise un grugnito. — Una gara di enigmi… avrei dovuto immaginarlo. Come hai potuto sopravvivere e fuggire quel giorno sulla Strada dei Mercanti? A stento io stesso mi sono salvato.

Morgon lo fissò in silenzio. Abbassò la punta della spada sul pavimento. — I cambiaforma, chi sono? Tu sei il Supremo, dovresti saperlo.

— Erano soltanto una leggenda, favole e poemi, qualcosa fatto d’alghe e di conchiglie rotte… una strana accusa fatta da un principe di Ymris, finché tu non hai lasciato la tua terra per cercarmi. Ma adesso… stanno diventando un incubo. Tu cosa sai di loro?

— So che sono antichi. Possono essere uccisi. Hanno poteri enormi ma li usano raramente. E stanno ammazzando mercanti e guerrieri nelle strade di Lungold. Io non so, in nome di Hel, cosa mai siano.

— Che cosa vedono in te?

— Ciò che vedi tu, presumo, qualunque cosa sia. Dovresti essere tu a dare questa risposta a me.

— Senza dubbio. L’uomo saggio conosce il suo nome.

— Non prendermi in giro. — La luce dell’elsa vacillò fra le sue mani. — Tu hai distrutto Lungold per tenere il mio nome lontano da me. Tu hai nascosto tutto ciò che riguardava questo nome, e dalla Scuola degli Enigmi di Caithnard hai sorvegliato…

— Risparmiami la storia della mia vita.

— È questo ciò che voglio da te. Maestro Ohm. Supremo. Dove hai trovato il coraggio di assumere l’identità del Supremo?

— Nessun altro la reclamava.

— Perché?

Il mago restò in silenzio un momento. — Tu potresti estrarmi a forza le risposte — disse poi. — Io saprei raggiungere e legare ancora le menti dei maghi di Lungold, e farei sì che tu non riusciresti a toccarmi. Potrei fuggire, e tu potresti inseguirmi. O potresti essere tu a fuggire ed io a inseguirti. Potresti uccidermi, ma questo sarebbe un lavoro difficile e poi avresti perduto il tuo più potente protettore.

— Protettore!

— Io ti voglio vivo. Credi che per i cambiaforma sia lo stesso? Ora ascoltami…

— Non provarci! — disse stancamente Morgon. — Posso annientare il tuo potere una volta per tutte. Per quanto sia strano, a me non importa che tu viva o muoia. Se non altro ti comprendo, il che è più di quanto io possa dire dei cambiaforma o di… — Tacque. Il mago fece un passo verso di lui.

— Morgon, tu hai visto il mondo attraverso i miei occhi e hai il mio potere. Più andrai a toccare le leggi della terra, e più gli uomini si ricorderanno di questo.

— Non ho intenzione d’immischiarmi con le leggi della terra. Chi credi che io sia?

— Hai già cominciato a farlo.

Morgon lo fissò. Sottovoce disse: — Ti sbagli. Io non ho neppure cominciato a vedere coi tuoi occhi. In nome di Hel, cos’è che vedi quando mi guardi?

— Morgon, io sono il mago più potente del reame. Potrei battermi contro di te.

— Quel giorno, sulla Strada dei Mercanti, qualcosa ti ha spaventato. Hai bisogno che io combatta per te. Cosa accadde? Hai visto i limiti del tuo potere in quegli occhi verde-mare? Loro vogliono me, e tu non vuoi cedermi a loro. Ma sembri ben certo che non riusciresti a opporti a un esercito di quella progenie del mare.

Ghisteslwchlohm tacque ancora un poco, mentre riflessi rossi illuminavano il suo profilo. — E tu ci riusciresti? — chiese a bassa voce. — Chi ti aiuterebbe? Il Supremo? — In quell’istante Morgon avvertì l’improvvisa tensione della sua mente, un’onda di pensiero che si allargava nel salone e sul terreno esterno in cerca delle menti dei maghi, per penetrare in loro e legarli ancora una volta a sé. Morgon sollevò la spada; le stelle mandarono un lampo di luce negli occhi di Ghisteslwchlohm. Il mago distolse lo sguardo, la sua concentrazione si spezzò. Poi alzò una mano e dalle sue dita scaturirono refoli di luce. I bagliori saettarono nelle tre stelle come se queste li avessero risucchiati. Nel salone cadde una tenebra densa come una cosa viva, che occluse perfino il chiarore della luna. Nella mano di Morgon la spada si raggelò. Il freddo gli risalì lungo il braccio, nelle ossa, dietro gli occhi: un legame invisibile gli immobilizzò le membra e i pensieri. Esserne consapevole servì soltanto a intensificarne l’effetto; lottare per muoversi non ebbe altro risultato che farlo stringere di più intorno a lui. Allora gli cedette e rimase fermo nel buio, conscio che era illusione e sapendo che accettarla, come l’accettazione dell’impossibile, era il solo modo per uscirne. Plasmò se stesso all’immobilità, divenne il gelo da cui era attanagliato, e quando l’onda di potere che s’era addensata da qualche parte oltre l’oscurità infine gli si abbatté addosso la sua mente gelida e immobile la bloccò, con l’inerzia di un macigno di ferro.