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Sentì l’incredula e furibonda imprecazione di Ghisteslwchlohm, e scosse via da sé l’incantesimo. Riuscì a catturare con la mente quella del mago appena prima che lui svanisse. Un ultimo impeto di energia lo costrinse ad allentare un po’ la presa, e capì d’essere vicino al limite della resistenza. Ma il mago era esausto; perfino la sua illusione di tenebra si sfaldava. La luce delle stelle brillò di nuovo; le mura diroccate che li circondavano emettevano lievi aloni luminosi di potere. Ghisteslwchlohm alzò una mano, come se volesse estrarre qualcosa da quelle macerie ardenti, poi la lasciò ricadere inerte. Morgon gli strinse attorno un lieve legame, e pronunciò il suo nome.

Il nome mise radici nel suo cuore e nei suoi pensieri. Ciò che si trovò ad assorbire non fu potere, bensì ricordi, mentre guardava il mondo per pochi tremuli istanti come attraverso la mente di Ghisteslwchlohm.

Vide la grande sala in cui erano com’era stata al tempo del suo splendore, con le decorazioni quasi brucianti dei fuochi della magia ed i pannelli di legno di cedro ancora freschi e odorosi. Più di cento paia d’occhi lo avevano fissato quel giorno, mille anni prima, mentre lui spiegava le nove regole della magia. E mentre parlava già coltivava in sé, celandola anche alla mente del più potente di loro, tutta la conoscenza relativa alle tre stelle.

S’era seduto nella reggia del Monte Erlenstar manovrando il suo difficile e inquieto potere. Aveva penetrato la mente dei sovrani, non per dominarne le azioni ma per conoscerli, per studiare l’istinto del governo della terra che a quel tempo non sapeva ancora padroneggiare. Aveva visto un sovrano di Herun cavalcare da solo verso il Passo Isig e avvicinarsi sempre più, per interrogarlo su un enigma e su tre stelle. Aveva confuso la mente del cavallo del Morgol; l’animale s’era impennato nitrendo, e il Morgol Dhairrhuwyth era rotolato giù per la scarpata mentre una slavina di macigni precipitava con lui ruggendo il suo terribile monito.

Molto tempo prima di questi avvenimenti era entrato, pieno di meraviglia, nella grande sala del trono di Monte Erlenstar, dove una leggenda più antica d’ogni memoria umana affermava che abitasse il Supremo. L’aveva trovata vuota. Le gemme grezze incastonate nelle pareti erano sporche e senza luce. Generazioni di pipistrelli avevano fatto il nido nei soffitti. I ragni avevano tessuto tele fragili come illusioni intorno al trono. Lui era entrato lì per porre una domanda su una creatura che sognava nelle profondità del Monte Isig. Ma dinnanzi a sé non aveva visto nessuno a cui porla. Aveva spazzato le ragnatele dal trono e s’era seduto, stupito da quel silenzio e da quell’abbandono. E mentre la luce che penetrava dalle porte malconce si faceva grigia, aveva cominciato a intrecciare il progetto di un inganno…

Era stato in un altro luogo, silente e incantevole, su un’altra montagna, e la sua mente s’era immersa in una misteriosa pietra bianca. Essa stava sognando il sogno di un bambino, e lui aveva trattenuto il respiro nel vedere quella strana immagine irreale: una grande città su una pianura ventosa, una città che nella memoria del bambino cantava col vento. Il bambino osservava quel panorama da una certa distanza; la sua mente sfiorava le foglie, la corteccia di un albero, gli steli d’erba; aveva guardato se stesso attraverso gli stolidi occhi di un rospo; s’era visto riflesso in quelli di un pesce; i suoi capelli avevano attratto l’attenzione di un uccellino che costruiva il nido. Il sogno aveva destato in lui l’impulso rovente di fare una domanda, e mentre il bambino si chinava ad annusare il profumo di una foglia lui gliel’aveva rivolta. Il bambino era sembrato volgersi nell’udire la sua voce, con occhi scuri e vulnerabili come quelli di un passero.

— Chi è stato a distruggervi?

Il cielo era divenuto grigio come pietra sopra la pianura; la luce aveva abbandonato il volto del bambino. S’era teso, in ascolto. Il vento aveva preso a soffiare sulla piana, sconvolgendo le erbe. Da lontano era giunto un rumore insopportabile, quasi troppo grande per poter essere udito. Da uno degli edifici della città una pietra s’era staccata, precipitando al suolo. Un’altra s’era schiantata su una strada. Il rumore s’era subito trasformato in un basso terrificante ruggito che in qualche modo lui aveva riconosciuto, sebbene non potesse più vedere né udire, ed i pesci schizzassero fuori dal ruscello in secca, e l’uccellino fosse stato strappato via dall’albero…

— Che cos’è? — sussurrò Morgon attraverso la mente di Ghisteslwchlohm, attraverso la mente del bambino, protendendosi per afferrare meglio la fine del sogno. Ma mentre tornava a penetrarvi esso si dissolse in acqua sconvolta, in vento scuro di tempesta, e gli occhi del bambino divennero bianchi come pietra. Il suo volto sfumò in quello di Ghisteslwchlohm, dagli occhi cerchiati di stanchezza e pervasi da una luce pallida come schiuma.

Stupito, teso nello sforzo di captare ancora qualcosa, Morgon intravide un movimento con la coda dell’occhio. Girò la testa di scatto. Le tre stelle lampeggiarono sul suo volto; vacillò e gli parve di perdere conoscenza per un istante. Indietreggiò nella luce palpitante ed i suoi piedi annasparono fra le macerie, mentre si mordeva a sangue un labbro. Rialzò la testa: la punta della spada stellata era appoggiata sul suo cuore.

Il cambiaforma che stava dinnanzi a lui aveva gli occhi bianchi come quelli del bambino. Nel vedere il suo sorrisetto sardonico Morgon sentì una fredda paura scivolare in lui. Ghisteslwchlohm era sempre immobile, poco lontano, e li fissava. Si volse e vide che in piedi fra le macerie c’era anche una donna. Il suo volto affascinante ostentava calma, nella luce rossastra che spioveva su di lei. Morgon udì i rumori della battaglia che infuriava dietro le spalle della donna: lance e spade, magia e armi fatte d’ossa umane che s’erano sbiancate negli abissi marini.

La donna ebbe un cenno col capo. — Portatore di Stelle — disse, senza alcuna ironia. — Tu stai cominciando a vedere troppo lontano.

— Io sono ancora un ignorante. — Deglutì saliva. — Cosa volete da me? Non me l’avete ancora detto. La mia vita o la mia morte?

— Entrambe. Nessuna delle due. — Gli occhi di lei si spostarono su Ghisteslwchlohm. — Maestro Ohm. Cosa dobbiamo farne di voi? Siete stato voi a svegliare i poteri del Portatore di Stelle. L’uomo saggio non forgia la spada che lo può uccidere.

— Voi chi siete? — sussurrò il Fondatore. — Mille anni fa spensi le braci di un sogno con tre stelle. Dov’eravate allora?

— Aspettavamo.

— Chi siete? Voi non avete una vostra forma, non avete nome…

— Il nome lo abbiamo. — La voce della donna suonava calma e nitida, ma in essa Morgon udì un tono che non era umano, come se la pietra o il fuoco avessero parlato con la voce di una creatura razionale e senza età. Di nuovo la paura gli corse nelle membra come un vento gelido. Cercò di scacciarla dando voce a una domanda, che uscì atona dalle sue labbra:

— Quando… quando il Supremo fuggì dal Monte Erlenstar, da chi stava scappando?

Un flusso di potere mutò parte del volto di lei in oro liquido. Non gli rispose. Ghisteslwchlohm aprì la bocca, e l’ansito che emise si udì chiaramente malgrado il frastuono della battaglia:

— No! — fece un passo indietro. — No!

Morgon non capì d’aver accennato a muoversi finché non sentì il dolore della punta che gli premeva nel petto. Sollevò le mani verso il mago. — Che cosa gli fate? — gridò. — Non vedo niente! — Il freddo metallo lo spinse indietro. L’impulso che l’aveva fatto muovere si trasformò in un crepitio di fuoco che scaturì dall’elsa stellata, costringendo il cambiaforma ad aprire la mano. La spada cadde sul pavimento e si smaterializzò. Anche lui perse l’equilibrio e finì a terra; cercò di rialzarsi. Il cambiaforma si chinò ad afferrarlo per il colletto della tunica. Fissando quegli occhi privi d’espressione Morgon proiettò una saetta di potere simile a un grido nella mente di lui. Il grido si perse in un gelido mare dalle acque torbide. Il cambiaforma tirò Morgon in piedi e lo lasciò, libero ma stupefatto. Di nuovo lui protese una sonda psichica verso la mente del mago e dentro di essa sentì soltanto l’eco del mare.