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Ma non aveva fatto che un passo quando si fermò di nuovo, fissando quelle acque che correvano via verso Isig e Osterland ed i porti mercantili nel settentrione del reame. La consapevolezza del suo stesso potere lo bloccava: nel reame non c’era alcun posto per un uomo che scatenava le leggi della terra e la furia del vento. Il fiume mormorava con voci che lui aveva già udito, parlando linguaggi che neppure i maghi potevano capire. Ripensò all’oscura e imperscrutabile entità di vento che era il Supremo, e che non gli aveva dato niente eccetto la vita.

— A che scopo? — mormorò. Fu tentato di urlare quella domanda alla faccia inespressiva del Monte Erlenstar, ma il vento si sarebbe limitato ad assorbire il suo grido. Fece un altro passo sulla riva verso Harte, dove Danan Isig gli avrebbe dato rifugio, calore e conforto. E tuttavia il Re non avrebbe potuto offrirgli delle risposte. Era intrappolato nel passato, nelle conseguenze di un’antica guerra che infine stava cominciando a comprendere. Il vago desiderio di esplorare meglio i suoi strani e imprevedibili poteri lo spaventò un poco. A lungo indugiò sulla riva del fiume, finché la nebbia sui picchi prese a scurirsi e il versante orientale del Monte Erlenstar divenne una parete d’ombra. Infine gli volse ancora le spalle, incamminandosi attraverso la nebbia fredda e la pioggia verso le montagne al confine delle desolazioni settentrionali.

Nell’attraversarle mantenne le sue sembianze, sebbene fra le cime più alte la pioggia talvolta si mutasse in grandine e le rocce fra cui s’arrampicava fossero di ghiaccio sotto le sue mani. Nei primi giorni mise a repentaglio la vita, anche se non se ne accorse né se ne curò. Si trovò a mangiare animali che non ricordava di aver cacciato, o a svegliarsi all’alba in qualche caverna asciutta senza sapere come c’era entrato. Pian piano, mentre capiva la sua scarsa inclinazione all’uso del potere, si dedicò di più al pensiero della sopravvivenza. Uccise delle capre selvatiche, le trascinò in una grotta e le spellò, nutrendosi della carne intanto che le pellicce si asciugavano. Affilò una costola, tagliò le pelli e per lacci usò strisce della sua tunica. Si confezionò un mantello col cappuccio, largo e peloso, e rafforzò gli stivali con fasce di pelliccia. Quando le suole furono pronte poté indossarli e camminare più speditamente, giù per i versanti settentrionali delle terre desolate.

In quei gelidi territori pioveva poco, ma in compenso tirava incessantemente un vento crudele, e le monotone piane erano coperte di ghiaccio che al tramonto s’arrossava come fuoco. Si spingeva avanti silenzioso e spettrale egli stesso, cacciando quand’era affamato, dormendo all’aperto e quasi inconscio del freddo, come se il suo corpo fosse diventato parte del vento che procedeva con lui. Un giorno s’accorse che non si stava più dirigendo a nord: aveva deviato a oriente e stava vagando senza meta verso il sole nascente. In distanza vide una lunga catena di colline sovrastata dai picchi grigio azzurri del Monte Fosco. Ma erano immagini così sfumate e lontane che non le riconobbe. Continuò a camminare nell’autunno inoltrato, senza udire mai altra voce che quella del vento. Una notte, seduto davanti al fuoco e a mala pena conscio delle raffiche che gli scompigliavano la pelliccia, abbassò gli occhi e vide nelle sue mani l’arpa stellata.

Non ricordava d’averla chiamata a sé. Vi tenne gli occhi sopra, guardando i riflessi della fiamma sulle corde ben tese. Dopo un poco ebbe un brivido, e la imbracciò. Mosse le dita a caso e ne trasse dei sussurri appena udibili, seguendo la rozza e selvaggia canzone del vento.

Non sentiva alcun impulso a muoversi da lì. Rimase dunque in quella zona isolata nella desolazione nordica, le cui uniche caratteristiche erano pochi ammassi di rocce, qualche stento cespuglio, e una spaccatura nel terreno indurito dove un ruscello faceva la sua breve comparsa per svanire poco più in là. Lasciava quel posto solo per cacciare e non ebbe mai difficoltà a trovare la strada del ritorno, quasi che a guidarlo fosse l’eco della sua arpa rimasto fra i macigni. Suonò l’arpa seguendo la musica del vento che soffiava dall’alba al tramonto, talvolta usando soltanto la corda più alta, poiché quella era la nota portata dal vento dell’est; e a volte facendole vibrare tutte, poiché la corda di basso tuonava con lo stesso ruggito del vento del nord. Talora, alzando lo sguardo, scopriva un gufo delle nevi intento ad ascoltarlo roteando in cerchio su di lui, o intercettava gli occhi stupiti di un falco. Ma col finire dell’autunno gli animali si fecero rari, poiché migravano verso le montagne in cerca di cibo e di riparo. Così egli restò solo con la sua arpa, uno strano e peloso animale la cui voce nasceva da ciò che teneva fra le mani. La sua sensibilità era sintonizzata sulle raffiche del vento, i suoi pensieri dormivano dello stesso sonno di quel territorio. Quanto a lungo fosse rimasto lì non avrebbe saputo dirlo. Finché una notte, alzando gli occhi dal fuoco disturbato dalle scintille che gli volavano in faccia, davanti a sé vide Raederle.

La giovane donna era abbigliata in ricchi indumenti di pelliccia argentea, e i lunghi capelli le sfuggivano dal cappuccio come filamenti di fiamma. Lui restò seduto a guardarla, le mani paralizzate sulle corde. Quando la ragazza s’inginocchiò accanto al fuoco poté vederle più chiaramente il volto; era pallida come la neve, stanca, sempre deliziosamente bella. Poi notò il tremito che la scuoteva con violenza. Lei si tolse i guanti, sporse le mani verso il fuoco e dalle dita emise un bagliore che lo fece ardere con più forza. Nella mente di Morgon si fece strada la consapevolezza del tempo trascorso dall’ultima volta che avevano parlato.

— Lungold — mormorò. La parola gli parve senza significato nella desolazione che lo circondava. Ma lei aveva viaggiato fin oltre i limiti del mondo per cercarlo. Si sporse a lato del fuoco e le accarezzò dolcemente una guancia. Lei lo fissò senza parlare e si sedette. Sollevò le ginocchia e le circondò col mantello per difendersi dal vento.

— Ho sentito la tua arpa — disse. Lui sfiorò le corde senza produrre suoni, ricordando il passato.

— Un giorno ti promisi che avrei suonato quest’arpa. — Aveva la voce arrugginita dal disuso. Si schiarì la gola, incuriosito. — Dove sei stata? So che mi hai seguito nell’entroterra, e che eri con me nel Monte Erlenstar. Poi sei svanita.

Lei lo fissò a lungo, tanto che si dovette chiedere se gli avrebbe risposto, poi disse: — Non io. Sei stato tu a svanire, dalla faccia del reame. — La sua voce si fece tremula. — I maghi ti stanno cercando dappertutto, e così hanno fatto i cambia… i cambiaforma. E anch’io. Credevo che tu fossi morto. Ma ecco che sei qui, a suonare l’arpa in un vento gelido come la morte, e sembra che tu non lo senta neppure.

Lui taceva. L’arpa che aveva suonato col vento gli parve d’un tratto fredda come il ghiaccio sotto le dita. La poggiò a terra al suo fianco. — Come hai fatto a trovarmi?

— Ti ho cercato. In ogni forma a cui riuscivo a pensare. Dapprima mi dissi che forse eri coi vesta. Allora sono andata da Har, e gli ho chiesto d’insegnarmi la forma-vesta. Ci ha provato, ma appena ha sfiorato la mia mente ha smesso, e ha detto che secondo lui era meglio non farlo. Così ho dovuto spiegargli tutto. Ha voluto che gli raccontassi ciò che era successo al Monte Erlenstar, e poi è stato d’accordo sul fatto che bisognava rintracciarti. Infine mi ha portata sul Monte Fosco, fra i branchi di vesta. Ed è stato mentre viaggiavo con loro che ho cominciato a sentire la tua arpa in un angolo della mente, quando spirava il vento… Morgon, se ho potuto trovarti io ci riusciranno anche altri. Ti sei isolato qui per imparare a suonar l’arpa? O solo per fuggire?

— Sono fuggito, semplicemente.

— Be’, stai… stai pensando di tornare indietro?