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— Questo è perché non sono legato ai tuoi pensieri, ma soltanto agli occhi. Io ho viaggiato lungo la Strada dei Mercanti guardando con gli occhi di altri uomini. La notte che tu fosti aggredito dai ladri di cavalli compresi che uno di loro era un cambiaforma perché vidi, attraverso i suoi occhi, le tre stelle che tu tenevi celate alla gente comune. Cercai di raggiungerlo e di ucciderlo, ma lui mi sfuggì.

— E la notte che io seguii il suono dell’arpa di Deth? Anche allora vedesti dietro quell’illusione?

Il mago taceva. Chinò la testa, evitando lo sguardo di Morgon; sul volto duro e rugoso gli era comparsa una smorfia di vergogna così amara che il giovane fece un passo verso di lui, pentito d’avergli fatto quella domanda.

— Morgon, mi spiace. Io non potevo affrontare Ghisteslwchlohm.

— Non avresti potuto far nulla per aiutarmi. — Attanagliò le mani alla spalliera della sedia. — Non senza mettere in pericolo Raederle.

— Feci quel poco che potevo, rafforzando la tua illusione quando svanisti, ma… purtroppo fu assai poco.

— Ci hai salvato la vita. — Gli portò a mente il volto dell’arpista, e gli occhi vacui che erano rimasti fissi nel fuoco allorché lui gli s’era materializzato davanti nella notte. Lasciò la sedia e si passò una mano sul volto. Sentì Yrth muoversi sulla poltrona.

— Io sono cieco.

Lasciò ricadere le braccia e sedette, ottuso per la stanchezza. Il vento roteava intorno alla torre in una confusione di voci. Yrth attese, rispettando il suo silenzio; ma quando esso cominciò a prolungarsi troppo disse, gentilmente: — Raederle mi ha riferito ciò che ha compreso di quanto è accaduto al Monte Erlenstar. Ma non ho esplorato la sua mente. Vorresti lasciarmi esaminare i tuoi ricordi? O preferisci dirmelo a voce? In un modo o nell’altro, bisogna che io sappia.

— Entra nella mia mente.

— Non sei troppo stanco?

Lui scosse il capo. — Non importa. Prendi da me ciò che vuoi.

Davanti a lui il fuoco si fece più basso, sembrò stralciarsi in scintille di ricordi. Di nuovo rivisse il volo selvaggio e solitario nell’entroterra, e dal cielo precipitò nelle viscere del Monte Erlenstar. La torre si riempì di tenebra; deglutì saliva amara come l’acqua del lago. I ceppi scoppiettavano in una lingua che non riusciva a capire. Una raffica di vento disperse quelle voci spazzandole via dalla sua mente. Le pietre dell’edificio tremarono, scosse fino in profondità dalla nota che vibrava nitida in quel vento. Ci fu un lungo silenzio durante il quale lui sonnecchiò, scaldato dall’ultimo sole estivo. Poi fu di nuovo sveglio, una creatura selvatica avvolta in pelli grezze che sventolavano nell’aria. S’immerse sempre più profondamente nelle pure e mortali voci dell’inverno.

Seduto accanto a un fuoco da campo ascoltò i venti. Ma essi gli parlavano da oltre un circolo di pietra; non sfioravano né lui né il bivacco. Si raddrizzò, sbatté le palpebre, stupito dal volto del mago che si sovrapponeva a quelle immagini notturne. I suoi pensieri tornarono alla realtà che lo circondava. Si piegò avanti con un borbottio, così stanco che avrebbe voluto mescolarsi al fuoco morente. Il mago si alzò e fece qualche passo, fermandosi quando urtò in una cesta piena d’abiti.

— Cosa facevi nelle terre del nord?

— Suonavo l’arpa. Potevo suonare quella nota là fuori, quella che fa tremare la pietra… — Udì la sua voce come da lontano, meravigliandosi che fosse ancora vagamente razionale.

— Come sei sopravvissuto?

— Non lo so. Forse ero parte del vento, per un po’… avevo paura di tornare indietro. Cosa ne farò di questo potere?

— Usalo.

— Non oso. Ho potere sulla legge della terra. Lo voglio. Desidero usarlo. Ma non ne ho il diritto. La legge della terra è un’eredità dei sovrani, legata in loro dal Supremo. Io distruggerei ogni legge…

— Forse. Ma la legge della terra è anche la più grande sorgente di potere del reame. Chi può aiutare il Supremo se non tu?

— Lui non ha chiesto aiuto. Forse che una montagna chiede aiuto? O un fiume? Loro esistono, semplicemente. Se toccassi il suo potere lui potrebbe accorgersi fin troppo di me, e distruggermi, ma…

— Morgon, non riesci davvero a riporre alcuna speranza in quelle stelle che ho fatto per te?

— No. — Chiuse gli occhi. Con uno sforzo che lo fece quasi gemere li riaprì. — Io non parlo il linguaggio della pietra. Per lui io esisto, e basta. Non vede niente se non le tre stelle che riemergono da secoli di tenebra, durante i quali forme senza potere chiamate uomini sfiorarono appena la terra, neppure abbastanza da disturbarlo.

— Lui ha dato loro le leggi della terra.

— Io ero una forma che possedeva la legge della terra. Ora sono soltanto una forma senza nessun destino fuorché nel passato. Non toccherò mai più il potere di un altro governatore della terra.

Il mago esitò, rivolto al fuoco in cui si perdevano gli occhi di Morgon. — Sei davvero così irritato col Supremo?

— Come posso irritarmi con un macigno?

— I Signori della Terra hanno assunto tutte le forme. Cosa ti fa tanto sicuro che il Supremo si sia dato la forma di qualunque cosa, fuorché quella di uomo?

— Perché… — Tacque, e fissò la fiamma finché essa bruciò le ombre di sonno che gli intorpidivano i pensieri. — Tu vuoi che io liberi i miei poteri nel reame.

Yrth non rispose. Morgon lo osservò, restituendogli l’immagine del suo stesso volto, duro, anziano, potente. D’improvviso vide il Supremo non più come un macigno tetragono al vento, ma come un’entità in pericolo vulnerabile, a cui si dava la caccia, la cui unica arma era il silenzio. Il pensiero lo fece irrigidire, meravigliato. Pian piano divenne conscio del silenzio che aumentava istante dopo istante fra la sua domanda e la risposta che attendeva.

Trattenne il respiro e ascoltò quel silenzio che lo tormentava stranamente, come il ricordo di qualcosa che un tempo lui aveva nutrito in sé. Le mani del mago si volsero un attimo verso la luce e si chiusero, nascondendo le loro cicatrici. Disse: — Ci sono poteri scatenati per tutto il reame alla ricerca del Supremo. I tuoi non saranno i peggiori. Dopotutto, tu sei legato da un peculiare sistema di restrizioni. La migliore, e la meno comprensibile di queste, sembra essere l’amore. Tu puoi ottenere il permesso dei sovrani. Hanno fiducia in te. E quando né tu né il Supremo sembravate esistere ancora, hanno conosciuto la più cupa disperazione.

Morgon chinò il capo. — Non pensavo a loro. — Non s’accorse che Yrth s’era mosso finché non si sentì sfiorare dalla sua tunica scura. Il mago gli poggiò una mano su una spalla, dolcemente, così come avrebbe potuto toccare un animale selvatico che gli si fosse accostato esitante nella boscaglia.

Il suo tocco risucchiò da Morgon ciò che lo angosciava: confusione, ira, interrogativi, perfino la forza e la volontà di resistere a quel sottile atto del mago. Lasciò in lui soltanto il silenzio, e una nostalgia disperata e incomprensibile.

— Io troverò il Supremo — disse. E aggiunse, come un avvertimento o una promessa: — Nulla lo distruggerà. Lo giuro. Nulla.

CAPITOLO UNDICESIMO

Dormì per due giorni nella dimora del Re, svegliandosi soltanto due volte: la prima mangiò, e la seconda vide Raederle che seduta accanto a lui attendeva pazientemente il suo risveglio. Intrecciò le dita a quelle di lei, le sorrise un poco, poi si girò dall’altra parte e continuò a dormire. Infine si destò, fresco e riposato, nel tardo pomeriggio. Era solo. Dal vocio confuso che era penetrato nel suo dormiveglia si rese conto che nel salone della fortezza si cenava, e che probabilmente Raederle era con Danan. Si lavò e bevve un sorso di vino, ascoltando quei rumori lontani. Al di sotto di essi udì l’immenso e oscuro silenzio senza età che riempiva i cunicoli e le caverne del Monte Isig.