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Gravidi di sicurezza e di potere gli occhi ciechi si volsero a lei. Al suono della sua voce avevano assunto una gentilezza che per un momento fermò il coltello di Morgon. — Soltanto un poco.

— Puoi insegnarmela? O dovremo volare per tutta la strada fino a Herun come corvi?

— Se vuoi… Pensavo, poiché sei di An, che ti saresti sentita più a tuo agio come corvo.

— No — rispose sottovoce lei. — Ti ringrazio del pensiero, ma ormai per me una forma vale l’altra.

— Quante ne hai prese?

— Oh… uccelli, un albero, un salmone, un tasso, un cervo, un vesta. Ho perso il conto, quando andavo alla ricerca di Morgon.

— Ma lo hai sempre ritrovato.

— E anche tu.

Distrattamente Yrth tastò il terreno accanto a sé, cercando rami con cui sostenere lo spiedo. — Già…

— Ho anche preso la forma di una lepre.

— La lepre è la preda del falco. Ti sei compenetrata nelle leggi della terra.

Morgon gettò la pelle e le interiora fra i cespugli, e afferrò lo spiedo. — E le leggi del reame? — chiese, secco. — Non significano niente per un Signore della Terra?

Il mago s’irrigidì. Qualcosa dello spietato istinto del falco sembrò riaffiorare dietro i suoi occhi, finché Morgon sentì l’inutilità del proprio atteggiamento di sfida. Distolse lo sguardo. Yrth disse, ironico: — Né le una, né le altre. — Morgon piazzò lo spiedo sulla fiamma e girò la lepre un paio di volte per collaudarlo. L’ambiguità delle parole del mago lo infastidiva. Tolse via dei sassi, sedette e lo scrutò. Ma Raederle gli stava parlando, e il disagio che c’era nella voce di lei lo zittì.

— Allora perché, secondo te, i miei consanguinei sulla Piana del Vento stanno facendo guerra al Supremo? Perché, se il potere è una semplice questione di conoscenza, e le leggi che essi sfruttano sono le leggi della terra?

Yrth mantenne il silenzio. Il sole era tramontato, le nuvole nere di pioggia a occidente l’avevano nascosto. La penombra scesa intorno a loro era resa più fitta dalla nebbia. L’uomo allungò una mano allo spiedo e lo girò lentamente. — Io penso — disse, — che Morgon sia nel giusto presumendo che il Supremo stia bloccando i pieni poteri dei Signori della Terra. In se stessa, questa è una ragione sufficiente perché essi vogliano combatterlo… Ma dietro tale enigma sembra che ce ne siano molti altri. I bambini di pietra sotto l’Isig mi guidarono alla loro tomba, secoli or sono, con la tristezza che emanava da essi. I loro poteri gli erano stati tolti. I bambini sono sempre gli eredi del potere; forse è per questo che sono stati distrutti.

— Aspetta! — La voce di Morgon tremò su quella parola. — Stai dicendo… stai suggerendo l’ipotesi che anche l’erede del Supremo fosse sepolto in quella tomba?

— Sembra probabile, no? — Il grasso sgocciolò sulle braci, e lui girò la lepre. — Forse era proprio quel bambino che mi disse di costruire un’arpa e una spada, intarsiata di stelle, per qualcuno che nei secoli futuri sarebbe venuto a reclamarle…

— Ma perché? — sussurrò Raederle con un fremito. — Perché?

— Tu hai visto il volo del falco… è affascinante nella sua picchiata mortale. Se non vi fosse una legge che lo regola, questo suo potere e il fascino che ne deriva diventerebbero terribili…

— Io lo voglio. Quel potere.

Il volto scarno e duro di Yrth s’illuminò ancora della sua strana dolcezza. Le toccò un braccio, come aveva sfiorato il filo d’erba. — Allora prendilo.

Lasciò ricadere la mano. Raederle chinò il capo. Non riuscendo a vederle il viso Morgon allungò una mano a scostarle i capelli. Ma lei lo evitò con un gesto brusco e si alzò. Il giovane la guardò allontanarsi fra gli alberi, con le braccia strette al petto come se stesse rabbrividendo. Il sangue gli salì agli occhi senza una ragione che potesse capire, salvo che il mago l’aveva toccata e lei s’era fatta scostante.

— Tu non mi lasci niente… — sussurrò.

— Morgon!

Con un’imprecazione lui balzò in piedi e seguì Raederle nella nebbia della sera, lasciando al falco la sua preda.

Nei giorni successivi proseguirono il volo, talora come corvi, e talaltra, quando il cielo si schiariva, come falchi. Due di loro si scambiavano sovente strida acute, il terzo li ascoltava e taceva. Cacciarono usando la forma-falco; dormirono e svegliandosi nell’alba fissarono il pallido sole invernale con occhi fieri e selvatici. Quando pioveva mantenevano la forma-corvo e procedevano lenti e pesanti sotto l’acqua. Gli alberi scorrevano senza fine più in basso, immutabili, dando loro l’impressione di volare sempre sullo stesso punto. Ma quando la pioggia restò alle loro spalle e fra le nubi occhieggiò il fantasma del sole, la foschia che chiudeva l’orizzonte si solidificò lentamente in una catena di colline che svettavano sulla foresta.

Nel tardo pomeriggio il sole emerse d’improvviso dagli squarci fra le nuvole. Raggi di luce scesero obliqui sulla terra, facendo scintillare le sinuosità dei ruscelli e trasformando gli stagni in limpide monete d’argento immerse nel verde. I falchi continuarono a volare stancamente, distanziati fra loro su una linea lunga mezzo miglio. Il secondo, come inebriato dalla luce intensa, accelerò d’un tratto il volo sotto le nubi, passando dalla luce all’ombra con foga esuberante. La sua eccitazione distrasse Morgon dal monotono ritmo con cui agitava le ali. Aumentò la velocità e oltrepassò il falco di testa per inseguire il lampo fulvo che saettava nel cielo. Non s’era mai accorto che Raederle riuscisse a volare così rapida. Sfruttò una forte corrente che spirava a sud, e nonostante ciò l’altro falco accrebbe il suo distacco. Lo tallonò con tutta l’energia di cui disponeva, impegnandosi al massimo, e pian piano riuscì ad accorciare la distanza. Soltanto allora, nel notare la sua apertura alare e le penne scure sul dorso, si accorse che era Yrth.

Mantenne l’andatura, e in lui nacque l’impulso violento di soverchiare il potere e la forza dell’altro volatile, mostrandogli che riusciva a oltrepassarlo. Accelerò al limite delle sue capacità, finché il vento divenne una barriera quasi solida che sembrava strappargli via le penne. La foresta era un mare d’onde verdi e veloci sotto di lui. Palmo a palmo diminuì il distacco, divenne l’ombra di quel falco, e quando riuscì ad affiancarlo tenne la sua velocità battendo le ali allo stesso ritmo. Ma non riuscì a sopravanzarlo. Si proiettò nell’aria e nella luce finché non si lasciò alle spalle perfino il suo furioso desiderio, come zavorra gettata via per accelerare ancora. E anche l’altro volatile accelerò, come per illuderlo e attrarlo in una gara sempre più accanita, sino al punto di dargli la certezza che se avesse costretto il suo cuore a pulsare di un sol battito più rapido sarebbe bruciato nel vento come una meteora.

Con un rauco stridio si staccò dal fianco del falco, gettandosi in picchiata verso i dolci declivi dei colli sottostanti. Non riusciva quasi più a muovere le ali, e lasciò che le correnti ascensionali lo sostenessero nella lunga planata finché non toccò il suolo. Cambiò forma. L’erba folta e soffice lo accolse come un giaciglio. Disteso bocconi a braccia spalancate artigliò le zolle con le dita, mentre pian piano il terribile martellare del suo cuore si placava e in gola cominciò a inalare aria invece di fuoco. Si girò sulla schiena e giacque immobile. L’altro falco fluttuava alto su di lui. Lo fissò senza pensare a nulla, irritato con se stesso, ancora vagamente conscio del suo impulso di sovrastarne il potere. Poi alzò una mano verso il volatile. Lo vide cadere dritto nella sua direzione come una pietra, ma lo lasciò venire. Il falco atterrò su una sua spalla e rimase lì, guardandolo con occhi ciechi e senza luce. Nella presa fiera di quegli artigli lui non si mosse, come una preda inerme in suo potere.

I tre falchi quella notte dormirono sulle colline di Herun. All’alba furono tre corvi quelli che si levarono nell’umida nebbia, sopra i villaggi ed i pascoli pieni di rocce, dove le raffiche di vento talora disperdevano la caligine rivelando qua un albero contorto, là un isolato dente granitico. Poco dopo cominciò a cadere una fitta pioggia che li accompagnò per tutta la strada fino alla Città dei Cerchi.