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Accorgendosi che i servi li sbirciavano lei gli mise una mano sulla bocca. D’improvviso lo abbracciò con forza, e lui s’accorse di tremare. — Non voglio irritarti, ma… taci, e ascoltami. Sto cercando di riflettere. Tu non capisci il fuoco finché non dimentichi te stesso per diventare fuoco. Hai imparato a vedere nel buio quando sei diventato una grande montagna col cuore di tenebra. Hai capito Ghisteslwchlohm solo assorbendo i suoi poteri. Così, l’unico modo di capire quell’arpista è forse quello di lasciare che ti attiri in suo potere, finché non diventerai parte del suo cuore e comincerai a vedere il mondo coi suoi occhi…

— A questo modo potrei distruggere il reame.

— Forse. Ma se è pericoloso, come puoi combatterlo senza conoscerlo? E se non fosse affatto pericoloso?

— Se non lo fosse… — Tacque. Il mondo sembrava vibrare intorno a lui: tutta Herun, i regni delle montagne, le terre del sud, l’intero reame gli si mostrava come attraverso gli occhi del falco. Vide l’ombra del predatore correre nel suo volo potente e silenzioso, la sentì cadere su di sé. Quella visione durò una frazione di secondo. Poi l’ombra si trasformò nel ricordo della tenebra notturna, e i suoi pugni si strinsero. — È pericoloso — mormorò. — Lo è sempre stato. Perché sono così legato a lui?

Quella sera lasciò la Città dei Cerchi, e trascorse i giorni successivi isolato dal mondo e in un certo senso anche da se stesso, senza badare allo scorrere del tempo, immerso nella legge della terra di Herun. Si spinse privo di forma nelle nebbie, penetrò nei profondi stagni e nelle sabbie mobili delle paludi, e sentì il freddo del mattino gelargli la crosta di fango sulla faccia mentre vagava fra le canne. Emise il solitario grido dell’uccello palustre, e guardò le stelle con gli occhi di pietra dei macigni millenari. Percorse le colline legando la sua mente alle rocce, agli alberi, ai torrenti, frugando nei giacimenti di ferro, di rame e di pietre preziose di cui le alture erano ricche. Diramò tentacoli di pensieri in una vasta rete attraverso i campi addormentati ed i pascoli nebbiosi, allacciandosi ai viticci delle radici morte e alle zolle su cui brucavano le pecore. L’amenità di quella terra gli ricordava Hed, ma lì c’era un’oscura e inquieta forza che s’era solidificata nelle forme dei colli e dei monoliti. Si aggirò sempre più vicino alla mente della Morgol e la esplorò; seppe che la sua perpetua e attenta sorveglianza era nata dalla necessità, l’eredità creata in lei da una terra dove le sabbie mobili e le nebbie fittissime erano un pericolo per chi doveva aggirarvisi. C’erano misteri inattesi in quelle strane rocce, e ricchezze nel loro interno; la mente della Morgol s’era plasmata su tutto ciò. Mentre Morgon si compenetrava anch’egli in quella legge sentì nascere in sé una gran pace, una nitida consapevolezza e una visione chiara legate alle necessità dell’esistenza agreste. E infine, quando poté vedere come la Morgol attraverso le cose e nel loro intimo, fece ritorno alla Città dei Cerchi.

Rientrò nella forma in cui era sparito: un silenzioso e sgusciante refolo di nebbia, invisibile nell’immobile notte di Herun. Seguì il suono della voce della Morgol e riprese le sembianze umane. Riaprendo gli occhi si trovò in piedi, fra le ombre e i riflessi del fuoco, nel piccolo ed elegante salotto di lei. Mentre si materializzava, la Morgol stava parlando con Yrth e a lui parve d’essere ancora legato alla tranquillità della sua mente. Non fece alcuno sforzo per troncare il contatto con quella calma psichica. Lyra era seduta accanto alla madre; Raederle s’era accovacciata vicino al fuoco. Avevano appena cenato, e presso di loro c’erano caraffe di vino e boccali.

Raederle girò la testa e lo vide; sorrise a qualcosa che gli lesse negli occhi e non volle disturbarlo. Morgon spostò la sua attenzione su Lyra. Per la cena la ragazza aveva indossato un abito leggero e fluttuante; sui capelli, intrecciati in modo complesso, portava un diadema d’oro. Il suo volto aveva perso la consueta fiera sicurezza di sé; negli occhi, più saggi e vulnerabili, sembrava aleggiare il ricordo delle ragazze che aveva visto battersi e morire nella difesa di Lungold. Disse alla madre qualcosa che Morgon non udì. La sovrana si limitò a risponderle:

— No.

— Io andrò a Ymris. — Testardi gli occhi scuri di lei fronteggiarono quelli della Morgol, ma la sua voce suonò calma. — Se non con la Guardia, al tuo fianco.

— No!

— Madre, io non faccio più parte della tua Guardia. Al nostro ritorno da Lungold ho rassegnato le dimissioni, perciò non puoi pretendere che ti ubbidisca senza pensare. Ymris è un terribile campo di battaglia, più sanguinoso di Lungold. Andrò a…

— Tu sei la mia Erede della terra — disse la Morgol. Manteneva un’espressione calma, ma Morgon avvertì nel profondo della sua mente il brivido della paura, gelido come la nebbia di Herun. — Io condurrò tutta la Guardia oltre i confini di Herun, alla Piana del Vento. Goh ne sarà la comandante. Tu hai dichiarato che non prenderai mai più una lancia in mano, e sono stata lieta di questa decisione. Non c’è alcun bisogno che tu combatta a Ymris, anzi la necessità impone che tu resti qui.

— Nel caso che tu sia uccisa? — disse Lyra, rigida. — Io non capisco perché tu insista per andare, ma voglio cavalcare al tuo fianco.

— Lyra…

— Madre, questa è la mia decisione. Ubbidirti non è più un obbligo d’onore. Io faccio le mie scelte, e ho scelto di cavalcare con te.

Le dita della Morgol si strinsero con forza attorno al boccale. Poi si costrinse alla calma. — Benissimo — disse. — Se in questa circostanza non c’è onore nelle tue azioni, non ce ne sarà neppure nelle mie. Tu rimarrai a Herun, con le buone o con le cattive.

Lyra sbatté le palpebre. — Madre! — protestò, incerta. La donna la interruppe:

— Proprio così. La Morgol sono io. Herun è in grave pericolo. Se Ymris cadrà, voglio che tu sia qui a proteggere la nostra gente nel miglior modo che ti sarà possibile. Se entrambe dovessimo morire a Ymris, per Herun sarebbe il disastro.

— Ma perché devi andare?

— Perché — disse sottovoce la Morgol, — così faranno, Har, Danan e Mathom, i sovrani del reame, costretti a combattere per la nostra sopravvivenza… o per altre ragioni più imperative ancora. Nel cuore del reame c’è un groviglio di enigmi; io voglio vederlo districato. Perfino a rischio della vita. Voglio delle risposte.

Lyra tacque. Nella penombra rosata i loro volti erano quasi identici, ambedue fini e attraenti. Ma la Morgol celava i suoi pensieri dietro occhi d’oro imperscrutabili, mentre quelli di Lyra erano specchi aperti sul suo tormento interiore.

— L’arpista è morto — sussurrò. — Se è questa la cosa a cui vuoi una risposta.

La Morgol abbassò lo sguardo. Dopo un momento allungò una mano a sfiorare una guancia della figlia. — Nel reame ci sono ben altri dilemmi che questo — disse. — E quasi tutti più importanti. — Ma la sua bocca si contorse in una smorfia di sofferenza. Poi aggiunse: — Gli enigmi senza risposta possono essere terribili. Con alcuni è possibile vivere ugualmente. Con altri… ciò che il Portatore di Stelle farà alla Piana del Vento sarà vitale. Così dice Yrth.

— E dice anche che tu devi per forza essere là? E se la Piana del Vento è così vitale, dov’è il Supremo? Perché ignora il Portatore di Stelle e l’intero reame?

— Non lo so. Forse Morgon potrà rispondere a qualche… — D’un tratto si volse e lo vide, immobile nella penombra e completamente immerso nei suoi pensieri.

La donna sorrise e gli tese una mano in gesto di benvenuto. Yrth si raddrizzò mentre Morgon si accostava al tavolo, forse guardandolo attraverso gli occhi di lei. Per un attimo Morgon lo vide strano, come qualcosa di affine alle nebbie e ai monoliti di Herun che la sua mente poteva esplorare e comprendere. Poi, intanto che sedette, il mago parve guardare se stesso attraverso gli occhi di lui. Senza parlare gli rivolse un cenno col capo. La Morgol domandò: — Hai trovato ciò che eri venuto a cercare?