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— Sì. Tutto quello che potevo prendere. Sono stato assente a lungo?

— Quasi due settimane.

— Due… — Pronunciò quella parola, senza darle suono. — Tanto tempo? Ci sono state novità?

— Pochissime. Ha Hlurle sono giunti mercanti a prendere tutte le armi che potevamo dare, per portarle a Caerweddin. Io ho avvistato una nebbia che da Osterland si spostava a sud, e soltanto oggi, finalmente, ho capito di che si tratta.

— Una nebbia? — Lui ripensò alle cicatrici sulle palme di Har, aperte davanti al fuoco. — Vesta? Har sta portando i vesta a Ymris?

— Ce ne sono a centinaia che si spostano nelle foreste.

— Sono grandi combattenti — disse Yrth. Appariva stanco, poco incline a chiacchierare , ma il suo tono era paziente. — E a loro non fa paura l’inverno di Ymris.

— Tu lo sapevi! — La calma di Morgon s’era sbriciolata. — Avresti potuto fermarlo. I minatori, i vesta, le guardie della Morgol… perché stai spingendo un esercito così inesperto e vulnerabile attraverso il reame? Tu sei cieco, ma tutti noi saremo costretti a guardare il macello di uomini e di animali su quel campo di battaglia…

— Morgon — lo interruppe gentilmente la Morgol. — Non è stato Yrth a prendere questa decisione per me.

— Yrth… — Tacque e si passò una mano sul viso, rinunciando a ciò che era tentato di dire. Yrth si alzò, un po’ a tentoni avanzò fra i cuscini disposti attorno al caminetto e venne a fermarsi dinnanzi a lui, a testa bassa. Morgon vide le sue mani segnate da cicatrici stringersi con forza, chiuse a parole che non poteva pronunciare, e ripensò alle mani di Deth, contorte dal dolore nella luce del bivacco. Nella silente notte di Herun gli parve di udire l’eco della strana e breve tranquillità che aveva trovato di fronte al fuoco acceso dall’arpista, di fronte alle sue labbra mute. D’improvviso fu sopraffatto da tutto ciò che lo legava all’arpista, al falco, ai suoi pensieri e al suo incomprensibile amore. Mentre osservava le luci e le ombre plasmarsi intorno a quel volto duro e cieco, sentì che avrebbe potuto cedere tutto: i vesta, le guardie della Morgol, i sovrani e l’intero reame in quelle mani nodose, in cambio di un posto all’ombra del falco.

Quella consapevolezza riportò in lui una strana e spiacevole calma. Chinò il capo; restò a fissare il suo scuro riflesso nel lucidissimo pavimento finché Lyra si volse a scrutarlo. — Devi essere affamato. — Gli versò un boccale di vino. — Ti porterò qualcosa di caldo. — La Morgol la seguì con gli occhi mentre attraversava la stanza col suo passo morbido e flessuoso. Sembrava stanca, più stanca di quanto Morgon non l’avesse mai vista.

La donna gli disse: — I minatori e i vesta e le mie guardie potranno essere inutili a Ymris. Ma, Morgon, i sovrani stanno offrendo ogni mezzo di cui dispongono. Non c’è altro che noi possiamo fare.

— Lo so. — La guardò, conscio del suo confuso e doloroso amore per un ricordo. D’un tratto, quasi per darle qualcosa in cambio di tutto ciò che lei aveva offerto, disse: — Ghisteslwchlohm mi rivelò che nel tuo accampamento fuori Lungold aspettavi Deth. È vero?

Per quanto stupita da quella domanda improvvisa, lei annuì. — Credevo che sarebbe venuto a Lungold. Era l’unico posto in cui poteva andare, e allora avrei avuto modo di chiedergli… Morgon, tu ed io siamo stanchi, e l’arpista è morto. Forse dovremmo…

— Lui è morto… è morto per te.

Dall’altra parte del tavolo lei sbarrò gli occhi. — Morgon! — sussurrò, come un avvertimento, ma lui scosse il capo.

— È vero. Raederle avrebbe potuto dirtelo. O Yrth… c’era anche lui. — Il mago lo fissò con occhi vuoti e brucianti, e la sua voce s’incrinò. Ma proseguì, per darle l’enigma senza risposta che era stata la vita dell’arpista, in cambio di niente: — Ghisteslwchlohm offrì a Deth la scelta fra prendere Raederle oppure te, come ostaggio, intanto che mi costringeva a tornare con sé al Monte Erlenstar. Lui rispose che avrebbe preferito la morte. Costrinse Ghisteslwchlohm a ucciderlo. Deth non ebbe compassione di me… forse perché io avrei potuto anche farne a meno. Ma tu e Raederle, semplicemente, vi amava. — Tacque, addolorato nel vederla coprirsi il volto con le mani. — Ti ho ferita? Non volevo…

— No.

Ma Morgon la vide piangere, e imprecò contro se stesso. Yrth stava immobile rivolto verso di lui; si chiese come il mago potesse vederlo, dato che anche il viso di Raederle era celato dai suoi capelli. Yrth ebbe un gesto strano alzando una mano aperta, quasi che stesse supplicando Morgon; poi allungò il braccio nell’aria accanto a lui e l’arpa stellata comparve dal nulla stretta nella sua mano.

Quando le prime note echeggiarono dolci, gli occhi della Morgol balzarono dapprima su Morgon, ma non era lui a imbracciare lo strumento. Il giovane fissava Yrth, muto come se le parole gli si fossero congelate in gola. Le dita forti del mago si stavano muovendo con impeccabile arte sulle corde che lui stesso aveva accordato, creando i sussurri della brezza e dell’acqua cristallina. Era la musica che aveva aleggiato nell’interminabile e tenebrosa notte del Monte Erlenstar, in tutta la sua mortale bellezza; erano gli arpeggi che per secoli avevano deliziato i sovrani di tutto il reame. Era l’esecuzione artistica di un grande mago che un tempo era stato conosciuto come l’Arpista di Lungold. E la Morgol nell’ascoltarlo apparve soltanto incerta, forse un po’ sorpresa. Poi l’arpista attaccò le note iniziali di una canzone, e il sangue le defluì di colpo dalla faccia.

Era una melodia che non aveva bisogno di parole, e che svegliò nella memoria di Morgon momenti di notte e di nebbia fra i boschi di Herun, un fuoco intorno a cui erano sedute le guardie della Morgol, la figura di Lyra che emergeva dal buio dicendo qualcosa. Si accigliò. E in quel momento, accorgendosi del pallore che rendeva vacuo lo sguardo della Morgol rivolto a Yrth, ricordò: la canzone che Deth aveva composto per lei.

Un brivido scosse Morgon. Quando l’affascinante melodia fu sul finire si chiese in che modo l’arpista si sarebbe giustificato con la donna. Le dita di lui rallentarono, trasse un ultimo accordo conclusivo dall’arpa e quindi si poggiarono sulle corde per fermarle. A capo chino restò seduto con lo strumento sulle ginocchia, le dita grevi di musica a contatto delle tre stelle. Luci e ombre scivolavano sulle pareti facendo tremolare la sua ombra stanca. Morgon si sarebbe atteso che dicesse qualcosa, ma l’uomo non parlò e non si mosse; lasciò fluire quegli istanti di tempo su di lui, silenzioso come un albero le cui radici fossero contorte nella nuda roccia, e nell’osservarlo Morgon comprese che quel silenzio non era la fuga da una risposta, ma la risposta stessa.

Chiuse gli occhi. Il cuore gli stava pulsando forte, dolorosamente; avrebbe voluto parlare ma non ci riuscì. Il silenzio dell’arpista lo circondava con la pace che doveva aver trovato sepolta in tutte le creature viventi del reame. Se lo sentì scivolare nella mente e nel cuore, finché perfino i suoi pensieri ne furono bloccati. Tutto ciò che seppe fu che qualcosa, una cosa da lui cercata tanto a lungo e tanto disperatamente, non era stata mai, neppure nei suoi momenti peggiori, molto lontana da lui.

Infine l’arpista si alzò, e le rughe del suo volto di pietra parvero i segni che deturpavano la mappa del reame. I due occhi ciechi si spostarono sulla Morgol per un interminabile istante, finché il volto di lei, così pallido da sembrare traslucido, ebbe un tremito e si chinò verso la superficie del tavolo. Poi si accostò a Morgon e gli mise l’arpa a tracolla, con un gesto che a lui parve parte di un sogno. Esitò ancora un attimo e sfiorò con dolcezza la fronte del giovane. Infine s’incamminò verso il caminetto e il suo corpo si smaterializzò nell’ondeggiare della fiamma.