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— Forse. Comunque Astrin sta portando l’intero esercito sulla Piana del Vento.

— Quando l’ha deciso? — si stupì Aloil. — Tre notti fa ho parlato con lui, e non mi ha detto niente.

— Ieri — rispose lui. — Gliel’ho chiesto io.

Ci fu un breve silenzio, durante il quale una delle sentinelle, la cui armatura rivestiva soltanto un nudo scheletro, transitò presso il fuoco in arcioni allo scheletro d’un cavallo. Mathom lo seguì con uno sguardo distratto. — Già. Cosa vede un uomo con un occhio solo? — E poi rispose a se stesso, con una smorfia cupa: — Morte.

— Questo non è il momento per gli enigmi — disse nervosamente Aloil. — Se fra Umber e Tor la strada è sgombra, gli occorreranno quattro giorni per arrivare sulla piana. In caso contrario… meglio che tu sia pronto a marciare a nord per aiutarlo. Se cadesse in una trappola prima di giungere sulla piana potrebbe perdere tutto il suo esercito. E avrebbe perduto Ymris. Tu sai quel che stai facendo? — chiese a Morgon. — Hai ottenuto poteri spaventosi. Ma sei preparato a usarli da solo?

Talies gli poggiò una mano su una spalla. — Tu hai la mente di un guerriero di Ymris — disse, — pieno di muscoli e poesia. Io non sono un esperto di enigmi, ma dopo aver vissuto per secoli nelle Tre Parti di An ho appreso qualche piccola sottigliezza. Vuoi ascoltare quel che il Portatore di Stelle sta dicendo? Ha seguito tutte le forze del reame sulla Piana del Vento, e non ha intenzione di battersi con loro. La Piana del Vento. Astrin l’ha vista. Yrth l’ha vista. L’ultimo campo di battaglia…

Aloil lo guardò in silenzio. Il suo volto fu percorso dal fremito di una fragile e quasi riluttante speranza. — Il Supremo. — Si volse a Morgon. — Credi che sia sulla Piana del Vento?

— Credo — disse sottovoce lui — che dovunque sia se non lo troveremo in tempo per noi tutti sarà la morte. Ho risposto a un enigma di troppo. — Scosse il capo, mentre entrambi i maghi cominciavano a parlare. — Venite alla Piana del Vento. Là avrete le risposte che potrò darvi. È là che avrei dovuto andare per prima cosa, ma ho pensato che forse… — Si interruppe. Fu Mathom a concludere per lui:

— Hai pensato che Yrth fosse qui. L’Arpista di Lungold. — Ebbe un mugolio rauco, simile alla risata di un corvo, però il suo sguardo era fisso nel fuoco come se vi vedesse la fine di un sogno. Improvvisamente volse loro le spalle, ma non prima che Morgon scorgesse i suoi occhi, vuoti e privi di espressione come quelli dei suoi spettri, occhi che avevano visto fino in fondo al nudo scheletro della verità.

Al tramonto Morgon si fermò fra gli alberi sul fondo della Piana del Vento, aspettando che la notte si chiudesse pian piano sulla città deserta e sulle erbacce che sussurravano al vento. Restò lì a lungo, così immobile che avrebbe potuto radicarsi al suolo senza accorgersene, come una quercia. Il cielo divenne un oscuro manto senza stelle disteso sul mondo, così buio che perfino con la sua visione notturna gli sgargianti colori arlecchinati della torre erano tenebra nella tenebra. Solo allora si mosse, di nuovo conscio del suo corpo. Passò fra le rovine, e nel momento in cui faceva l’ultimo passo verso la torre le nuvole si aprirono inaspettatamente. Nell’insondabile oscurità di quello squarcio celeste brillò una stella.

Ai piedi della spirale di scalini si fermò, guardandoli come li aveva guardati nell’umido autunno di due anni addietro. Quel giorno, ricordò, era tornato sui suoi passi, indifferente, senza nessuna ragione che lo spingesse a salire. Gli scalini erano in pietra dorata, e a dar retta alle leggende spiraleggiavano via dalla terra per l’eternità.

Insaccò la testa fra le spalle come per procedere contro un forte vento e cominciò l’ascesa. La parete alla sua destra era dello stesso lucido nero nello spazio fra le stelle. La scala d’oro girava intorno al cuore della torre, salendo con lieve pendenza. Tornato sulla parete anteriore, dove iniziava il secondo giro della spirale, il nero lasciò il posto a un brillante scarlatto. E notò che il vento non era più la sottile brezza del giorno prima; la sua voce era forte, gagliarda. Gli scalini sotto ai suoi piedi sembravano ora intarsiati d’avorio.

Alla terza spirale sentì il tono del vento mutare ancora. Le raffiche contenevano note che lui aveva suonato sull’arpa delle desolazioni settentrionali, e d’impulso alzò le mani per richiamare a sé lo strumento. Ma distrarsi con l’arpa sarebbe stato fatale, cosicché lasciò ricadere le braccia. Al quarto livello la parete sembrava d’oro zecchino, e la scala scolpita in una stella di fuoco. Girava all’insù senza fine, ed egli la seguì mentre la piana e la città morta s’allontanavano sempre più sotto di lui. Il vento divenne freddo. Al nono livello cominciò a domandarsi se non stava scalando una montagna. La parete ricurva e gli scalini erano bianchi come il ghiaccio e la neve. Ma la spirale andava facendosi più stretta, e questo lo indusse a pensare che la cima non era lontana. Al livello superiore, tuttavia, ogni cosa divenne nera intorno a lui, quasi che le stesse stelle fossero state spazzate via dal cielo. Quella tenebra gli parve interminabile, e quando ne uscì vide che la luna era ancora là dove l’aveva vista l’ultima volta. Continuò l’ascesa. La parete assunse un dolce colore d’alba rosata, e viste da lì le stelle erano pallidi rubini. Il vento tagliava ora come un coltello di ghiaccio, spietato e mortale, quasi che cercasse di farlo rinunciare alla sua forma umana. Salì lottando contro di esso, per metà uomo e per metà vento, ed i colori che gli fluttuavano attorno mutarono più volte, finché comprese, come altri erano stati costretti a comprendere prima di lui, che avrebbe potuto spiraleggiare su attraverso i loro mutamenti in eterno.

Si fermò. Più in basso la città era così lontana nel buio da essergli del tutto invisibile. Alzando lo sguardo poté vedere l’elusiva sommità della torre molto vicina. Ma gli era stata a quella distanza, così gli sembrava, per ore e ore. Si domandò se quello che stava scalando era soltanto un sogno, sognato e abbandonato fra le rovine migliaia di anni prima. Poi comprese che non era un sogno, bensì un’illusione, un antico enigma legato alla mente di qualcuno, e che lui s’era portato dietro la risposta per tutta l’ascesa.

Sottovoce mormorò: — Deth!

CAPITOLO QUINDICESIMO

Le pareti salirono intorno a lui e lo circondarono. Dodici finestre, tagliate nella pietra blu-mezzanotte, erano spalancate sull’inarrestabile mormorio del vento. Sentì un tocco e si volse, tornando di colpo alla sua forma fisica.

Davanti a lui c’era il Supremo. Aveva sulle mani le cicatrici del mago, e il volto sottile apparteneva all’arpista. Ma i suoi occhi non erano quelli dell’arpista né quelli del mago: erano gli occhi del falco, fieri, sensibili terribilmente potenti. Morgon se ne sentiva inchiodato, e quasi rimpiangeva d’aver pronunciato quel nome, che dopo tanto tempo s’era rigirato dentro di lui mostrandogli la sua faccia oscura. Per la prima volta in vita sua gli mancava il coraggio di far domande; aveva la bocca troppo secca per parlare.

Nel vuoto del silenzio del Supremo sussurrò: — Dovevo trovarti… Devo capire!

— Ma ancora non capisci. — La voce di lui parve sfumarsi nel vento. Poi celò le stimmate del potere da qualche parte dentro di sé e tornò ad essere soltanto l’arpista, placido e familiare, con cui Morgon poteva discutere. Quella trasformazione bloccò ancora la voce del giovane, causandogli un conflitto di emozioni. Cercò di controllarle. Ma quando il Supremo allungò una mano verso di lui, facendogli comparire l’arpa a tracolla e appesa al fianco la spada stellata, lui lo afferrò per un braccio.

— Perché?

Di nuovo gli occhi del falco lo fissarono, catturando il suo sguardo. In quelle scure pupille, come se gli stesse leggendo nella memoria, vide la silenziosa e millenaria partita che il Supremo aveva giocato, ora coi Signori della Terra, ora con Ghisteslwchlohm, ora con lui stesso, tessendo un intricato arazzo di enigmi alcuni dei quali erano vecchi quanto il tempo. Morgon strinse i pugni allo spasimo, mentre quelle manovre e quegli stratagemmi gli si dispiegavano davanti: un Signore della Terra s’era mosso da solo, emergendo dalle ombre di una guerra terribile e infinita… s’era nascosto per migliaia d’anni, ora come una foglia nel ricco humus del sottobosco, ora come un tratto di corteccia assolata sul fianco di un pino. Poi, per altri mille anni, aveva assunto le fattezze di un mago, e nei mille anni successivi quelle di un arpista dal volto imperscrutabile dietro i cui occhi misteriosi era impossibile leggere il potere.