— Perché — sussurrò ancora, e rivide se stesso a Hed, seduto all’estremità di un molo, con le dita su un’arpa che non sapeva suonare e l’ombra del Supremo stesa su di lui. Il vento del mare o una mano del Supremo gli avevano scostato i capelli dalla fronte, scoprendo le stelle. L’arpista le aveva guardate: una promessa emersa da un passato così lontano che perfino il suo nome era sepolto. E mentre il suo silenzio s’intrecciava a quegli enigmi gli mancava la voce per parlare.
— Ma perché? — Il sudore, o le lacrime, bruciava nei suoi occhi. Se li asciugò, poi tornò ad afferrare il Supremo per un braccio come per tenerlo fermo in quella forma. — Avresti potuto uccidere Ghisteslwchlohm con un pensiero. E invece lo hai servito. Tu. Mi hai consegnato a lui. Eri stato il suo arpista per tanto tempo da aver ormai dimenticato il tuo nome?
Il Supremo alzò una mano e gli prese il polso in una morsa. — Tu sei l’esperto di enigmi. Rifletti.
— Io ho giocato la partita che avevi preparato per me. Ma non so per quale motivo…
— Pensaci. Io ti ho trovato a Hed, innocente, ignorante, inconscio del tuo destino. Non sapevi neanche suonare l’arpa. Chi, in questo reame, avrebbe potuto risvegliare il tuo potere?
— I maghi — ringhiò lui. — Avresti potuto impedire la distruzione di Lungold. Tu eri là. I maghi avrebbero potuto sopravvivere, liberi, e istruirmi per darti la protezione di cui avevi bisogno…
— No. Se io avessi usato il mio potere per fermare quella battaglia, tu avresti dovuto affrontare i Signori della Terra molto prima che io fossi pronto. Loro mi avrebbero distrutto. Pensa ai loro volti. Ricordali. Le facce dei Signori della Terra che hai visto nel Monte Erlenstar. Io sono uno di loro. E i bambini, che una volta essi amavano, erano sepolti sotto il Monte Isig. Come avresti potuto capirli, nella tua ignoranza? Capire la loro brama, la loro estraneità da ogni legge? In tutto il reame, chi avrebbe potuto insegnarti tutto questo? Tu volevi una scelta, io te l’ho data: avresti potuto assumere il tipo di potere che hai imparato da Ghisteslwchlohm, distruttivo, crudele e senza amore. O avresti potuto sopportare la tenebra fino a prendere la forma, capirla, e uscirne per fare qualcosa di meglio. Quando ti sei liberato dal potere di Ghisteslwchlohm, perché hai dato la caccia a me invece che a lui? Ti aveva strappato il governo della terra. Io avevo tradito la tua fiducia e il tuo affetto. E tu hai inseguito chi aveva offeso la cosa che valutavi di più…
Morgon aprì i pugni, li richiuse. Il respiro gli usciva come un rantolo e dovette trattenerlo, calmarsi, per poter fare un’ultima domanda: — Che cosa vuoi da me?
— Rifletti, Morgon. — La calma voce di lui si fece bassa, quasi inudibile, gentile. — Tu hai preso la forma del vento, e del cuore selvaggio di Osterland. Tu hai visto mio figlio, morto, sepolto nel Monte Isig. Dalle sue mani hai preso le stelle del tuo destino. E con tutto il potere e la rabbia che avevi sei riuscito a farti strada fin qui, per conoscermi. Tu sei il mio Erede della terra.
Morgon non riuscì a parlare. Stava afferrando il braccio del Supremo come se temesse che il pavimento della torre svanisse sotto di lui. Poi udì la propria voce, atona, lontana, ansimare: — Il tuo Erede!
— Tu sei il Portatore di Stelle, l’erede profetizzato dai morti di Isig, colui che io ho atteso per secoli e oltre ogni speranza. Da dove pensi che sia venuto il potere che ora hai sulle leggi della terra?
— Io non… non ci avevo pensato. — La voce gli divenne un sussurro, mentre i suoi pensieri tornavano a Hed. — Tu mi stai dando… tu mi stai restituendo Hed.
— Ciò che ti darò è l’intero reame, quando morirò. Sembra che tu lo ami, con tutti i suoi spettri, i contadini testardi e i suoi venti mortali… — Tacque, sorpreso dal singhiozzo di Morgon. Il volto di lui s’era rigato di lacrime, mentre gli enigmi scioglievano il loro groviglio, nodo per nodo, intorno al cuore della torre. Abbassò le braccia, cadde in ginocchio ai piedi del Supremo e chinò il capo, con le mani segnate dalle cicatrici chiuse contro il petto. Non riuscì a dir niente, non sapeva neppure quale lingua di luce e di tenebra il falco, che aveva così governato la sua vita, avrebbe voluto udire. Storditamente pensò ancora a Hed, e gli parve di avere l’isola stretta fra le braccia, sul suo cuore. Poi il Supremo s’inginocchiò di fronte a lui e gli sollevò il volto prendendolo fra le mani.
I suoi occhi erano quelli dell’arpista, scuri come la notte, e non più colmi di silenzio ma di dolore.
— Morgon — mormorò. — Vorrei che tu non fossi una persona per cui ho avuto tanto affetto.
Gli passò un braccio intorno alle spalle, tenendolo a sé con fierezza come aveva fatto il falco coi suoi artigli. Poi tacque, finché Morgon non ebbe l’impressione che il suo cuore, e le pareti della torre, e la notte stellata al di fuori fossero fatti non di sangue o di pietra o di aria ma del respiro dell’arpista. S’accorse di avere ancora le lacrime agli occhi, e di temere che toccando la figura che aveva accanto essa cambiasse forma un’altra volta. Qualcosa di duro e acuminato, luttuoso, gli chiudeva la gola e i polmoni, ma non si trattava di lutto. Vincendo quella sofferenza, sentendosi come se il dolore del Supremo fosse la sola cosa che riusciva a comprendere, disse: — Cos’è accaduto a tuo figlio?
— La guerra lo uccise. Da lui venne strappato ogni potere. Non poteva più vivere… fu lui a darti la spada stellata.
— E tu… da allora sei rimasto solo. Senza un erede. L’unica cosa che avevi era una promessa.
— Sì. Ho vissuto in segreto per migliaia d’anni, senza niente in cui sperare salvo una promessa. Il sogno di un bambino morto. E poi tu sei venuto. Morgon, io non ho fatto niente di ciò che avrei dovuto fare per tenerti in vita. Niente. La mia sola speranza eri tu.
— Mi stai dando anche le desolazioni del nord. Io le ho amate. Le amo. E le nebbie di Herun, i vesta, l’immenso entroterra… ebbi paura, quando mi accorsi come amavo tutto questo. Ogni forma mi attirava, e non potevo impedirmi di volere… — La sofferenza gli tormentava il petto come una lama. Trasse un respiro rauco, faticoso. — Tutto ciò che volevo da te era la verità. Io non sapevo… non immaginavo che mi avresti dato tutto ciò che ho sempre amato.
Non riuscì a dir altro. I singhiozzi lo scuotevano tanto che gli parve di non poter più sopportare la sua forma. Ma il Supremo gli tenne le mani sulle spalle e gli parlò, placandolo pian piano. Ancora incapace di parlare Morgon restò immobile ad ascoltare il vento, che portava sulla torre raffiche di pioggia. La sua testa era china su una spalla del Supremo. Per un poco mantenne il silenzio, e quando rialzò gli occhi la sua voce stanca suonò più calma:
— Non potevo immaginarlo. Tu non mi hai lasciato guardare più lontano della mia rabbia.
— Non osavo permettere che tu vedessi troppo. La mia vita era in grave pericolo, e tu eri molto prezioso per me. Ho cercato di salvartela come ho potuto, usando me stesso, usando la tua ignoranza, perfino il tuo odio. Non sapevo se mi avresti perdonato, ma tutte le speranze del reame erano riposte in te, e volevo che tu fossi potente, confuso, sempre alla mia ricerca e tuttavia senza trovarmi mai, benché ti fossi continuamente vicino…