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— Io dissi… dissi a Raederle, mentre tornavamo dal nord, che con te mi aspettava una gara di enigmi che avrei potuto perdere.

— No. A Herun tu hai visto in me la verità che cercavi. Per questo ti ho lasciato. Da te potevo sopportare tutto, ma non la freddezza. — Gli accarezzò i capelli, poi lo prese ancora per le spalle. — Tu e la Morgol avete impedito al mio cuore di diventare pietra. Sono stato costretto a trasformare ogni parola che le avevo detto in una bugia. E tu l’hai di nuovo trasformata in una verità. Questa è stata la tua generosità, anche nel momento in cui mi odiavi.

— Tutto ciò che chiedevo, perfino quando l’odio per te mi rodeva, era una piccola, povera, insignificante ragione per amarti. Ma tu mi davi soltanto enigmi… Quando credetti che Ghisteslwchlohm ti avesse ucciso, piansi senza sapere perché. Quand’ero nelle terre del nord a suonare l’arpa col vento, troppo stanco anche per pensare, eri tu a darmi forza… a darmi una ragione per vivere. — Le mani gli si riaprirono lentamente. Ne poggiò una su una spalla del Supremo, esitante, e un tremito lo scosse. Nei suoi occhi scuri lesse la stanchezza, e qualcosa dell’infinita e terribile pazienza che lo aveva tenuto in vita così a lungo, solo e senza nome, minacciato dai suoi stessi consanguinei nel mondo degli uomini. Con una smorfia Morgon chinò il capo.

— Perfino io ho cercato di ucciderti.

Le dita dell’arpista gli sfiorarono una guancia, gli scostarono i capelli dagli occhi. — Hai impedito ai miei nemici di concentrare la loro attenzione su di me. Ma, Morgon, se quel giorno ad Anuin non ti fossi trattenuto, non so cos’avrei fatto. Se avessi usato il mio potere per fermarti, poi nessuno di noi sarebbe vissuto molto. E se avessi lasciato che tu mi uccidessi, disperato com’ero per aver trascinato me e te in una tale situazione, il potere che sarebbe passato nelle tue mani ti avrebbe distrutto. Così ti diedi un enigma, nella speranza che questo ti facesse pensare ad altro.

— Conoscevi bene il mio animo — sussurrò lui.

— No. Non hai fatto altro che sorprendermi… fin dall’inizio. Io sono vecchio quanto le pietre di questa piana. Le grandi città dei Signori della Terra furono distrutte da una guerra a cui nessun uomo avrebbe potuto sopravvivere. Io nacqui da una stirpe che viveva nell’innocenza; avevamo molto potere, e tuttavia capivamo le implicazioni del potere. È per questo che, anche se mi odiavi, io volli che tu capissi Ghisteslwchlohm e il modo in cui lui distrusse se stesso. Un tempo noi vivevamo pacificamente in quelle grandi città. Esse erano aperte a ogni mutamento. Il nostro aspetto cambiava ad ogni stagione, e prendevamo la conoscenza da tutte le cose: dal silenzio dell’entroterra al ghiaccio accecante delle desolazioni settentrionali. Non capimmo mai, finché non fu troppo tardi, che l’energia contenuta in ogni pietra e in ogni goccia d’acqua può governare l’esistenza come la distruzione. — Tacque e distolse lo sguardo, con una smorfia amara. — La donna che tu hai conosciuto come Eriel fu la prima di noi ad assumere tanto potere. Ed io fui il primo a vedere le implicazioni di quel potere… quel paradosso che sta alla base della magia e spinge allo studio degli enigmi. Così feci una scelta: cominciai a legare a me tutte le forme della terra secondo le loro stesse leggi, e non permisi più che qualcosa disturbasse quelle leggi. Ma dovetti combattere per impadronirmi delle leggi della terra, e non ci mettemmo molto a capire che guerra fosse quella. Il reame, così come tu lo conosci, non sarebbe sopravvissuto due giorni alle forze che vennero scatenate. Devastammo le nostre stesse città. Ci uccidemmo l’un l’altro. E strappando ogni potere ai nostri figli distruggemmo anche loro. Io avevo già imparato a dominare i venti, e questa fu la sola cosa che mi salvò. Riuscii a legare il potere di tutti gli altri Signori della Terra, lasciando loro soltanto quel poco con cui erano nati. Poi li spazzai nel mare, mentre il territorio devastato risanava se stesso pian piano. E misi nel sepolcro i nostri figli. Di tanto in tanto qualche Signore della Terra usciva dal mare, ma non avevano la forza di spezzare il legame che avevo posto su di loro. E non poterono mai trovarmi, perché i venti mi nascondevano. Fu allora che giunsero gli uomini…

Morgon deglutì saliva. — L’Anno dell’Insediamento!

— Sì. Vennero da un mondo lontano. Ed io m’impadronii di loro per inserirli nell’ambiente. Portavano con sé molte cose, semenze, animali… e questo ricostruì la vita nel reame, su tutta la costa. Fin dall’inizio i Signori della Terra cercarono di usarli. Si mescolarono con loro, diedero loro un po’ del proprio sangue, del proprio potere, e gli effetti di ciò furono a volte strani, anche se io li contrastai sempre. Ma sono troppo vecchio ormai, e sapevo che non li avrei potuti trattenere in eterno. Anche loro lo sanno. Ero già vecchio quando divenni un mago di nome Yrth, per costruire l’arpa e la spada di cui il mio erede avrebbe avuto bisogno. Ghisteslwchlohm apprese dai bambini morti dell’Isig la profezia sul Portatore di Stelle, e divenne per me un altro nemico, dalle grandi capacità, ignaro d’essere quella progenie che i Signori della Terra avevano creato per combattermi. Ciò che lo seduceva era la speranza di un potere maggiore. Egli pensò che se avesse controllato il Portatore di Stelle ne avrebbe assimilato il potere ereditario, e sarebbe divenuto il Supremo di fatto oltreché di nome. Questo lo avrebbe ucciso invece, ma io non mi preoccupai di spiegarglielo. Quando mi accorsi che stava aspettando il tuo arrivo lo sorvegliai… a Lungold, e in seguito al Monte Erlenstar. Assunsi le fattezze di un arpista che era morto nella distruzione della città, ed entrai al suo servizio. Volevo che non ti accadesse nulla fuori dal mio controllo. Quando infine ti trovai, seduto sul molo di Tol, con in mano un’arpa che non sapevi neppure suonare e la corona dei Re di Aum sotto il tuo letto, mi accorsi che l’ultima cosa che mi sarei aspettato, dopo quegli interminabili secoli di solitudine, era qualcuno che avrei potuto amare… — Tacque, mentre Morgon lo stava fissando oltre un velo di lacrime. — Hed. Avevo voluto un erede che proseguisse la guerra, e avevo predisposto negli uomini un’eredità di pace! Così neppure io mi aspettavo che fosse la più pacifica delle terre a generare il Portatore di Stelle, un giovane e amabile Principe di Hed, sovrano di contadini testardi e ignoranti che non credevano in niente fuorché nel Supremo…

— Sono ancora poco più di questo. Ignorante e testardo. Ho messo in pericolo le nostre vite venendo a cercarti qui?

— No. Questo è il solo posto in cui nessuno si aspetterebbe di trovarci. Ma ci resta poco tempo. Hai attraversato Ymris senza toccare la sua legge della terra.

Morgon allargò le mani. — Non ho osato — disse. — E riuscivo a pensare soltanto a te. Dovevo trovarti prima che i Signori della Terra trovassero me.

— Lo so. Ti ho lasciato in una situazione pericolosa. Ma mi hai rintracciato, e io ho la legge della terra di Ymris. Ne avrai bisogno. Ymris è sede di un grande potere. Voglio che tu ne prenda la conoscenza dalla mia mente. Non temere — aggiunse, vedendo la sua espressione preoccupata. — Voglio solo che tu abbia questa conoscenza, niente che tu non possa sopportare. Siediti.

Morgon si accovacciò sul pavimento di pietra. Fuori imperversava un temporale e il vento faceva penetrare la pioggia dalle finestre, ma non era freddo. Il volto dell’arpista stava mutando, le rughe tormentate si spianavano sotto la carezza di una pace antica, come se contemplasse il reame. Morgon lo contemplò, lasciandosi trascinare dalla brama di quella pace finché non ne fu avvolto, ed il tocco mentale del Supremo gli scese vibrante in fondo al cuore. Su di lui aleggiò ancora l’ombrosa e profonda voce del falco:

— Ymris… fu qui che nacqui, sulla Piana del Vento. Ascolta il suo potere al di là della pioggia, al di là delle grida dei morti. È come te, una terra fiera e gentile. Resta immobile e ascoltala…