Lui si congelò in quella posa, teso al punto che poteva udire l’erba piegarsi sotto il peso della pioggia e l’eco degli antichi nomi che erano stati pronunciati lì negli ultimi secoli. E poi egli divenne l’erba.
Lentamente trascinò se stesso nella terra ad Ymris, col cuore che gli pulsava della sua lunga e sanguinosa storia, mentre il suo corpo si espandeva nei campi, sulla costa impervia, nelle strane e silenti foreste. Si sentì vecchio come le prime pietre tagliate dal Monte Erlenstar e conficcate in quella terra, e conobbe la devastazione che la guerra aveva lasciato nel suolo di Ruhn. In Ymris avvertì la presenza di un potere che lo costringeva a deviare, quasi che la sua mente si trovasse di fronte una montagna o un mare invalicabile. Ma conobbe anche strani momenti di quiete: un immobile laghetto segreto dove si rispecchiavano molti misteri; bizzarre pietre che un tempo erano state fatte per parlare; foreste infestate da animali neri tanto timidi che morivano se solo un uomo li guardava; e sui confini occidentali querce così antiche che ricordavano il passaggio dei primi esseri umani diretti a popolare Ymris. Di tutto ciò fece tesoro. Il Supremo non gli aveva dato della sua mente che la consapevolezza di Ymris; il potere che negli occhi del falco lo aveva intimorito era scomparso quando tornò a guardarli.
Allorché riaprì le palpebre era l’alba, e al suo fianco stava accovacciata Raederle. La vista di lei lo fece ansimare di sorpresa. — Come sei arrivata fin qui?
— In volo.
La risposta era così semplice che per un attimo gli parve priva di significato. — Anch’io.
— Tu sei salito per le scale. Io ho volato fin quassù.
Il volto di lui era così vacuo per lo stupore che la ragazza sorrise. — Morgon, è stato il Supremo a lasciarmi entrare. Se non l’avesse fatto avrei continuato a volare intorno alla torre squittendo per tutta la notte.
Lui ebbe un borbottio e le strinse dolcemente una mano. Ma capì che era stanca, e quando il suo sorriso svanì le rimase negli occhi uno sguardo preoccupato. Il Supremo era in piedi accanto a una delle finestre. Sulla pietra nero-blu si spandeva la prima luce del giorno; sullo sfondo del cielo il profilo dell’arpista appariva teso e sfinito, con gli zigomi che stiravano la pelle esangue. Ma i suoi occhi erano quelli di Yrth, luminosi e colmi di mistero. Morgon lo fissò a lungo senza muoversi, di nuovo immerso nella pace di quell’animo, finché il volto familiare sembrò mescolarsi all’argentea luce del mattino. Poi il Supremo si volse a cercare il suo sguardo.
Per attirare Morgon accanto a sé non usò un gesto, solo il suo semplice desiderio senza parole. Lui lasciò la mano di Raederle e si alzò; attraversò stancamente il locale e si fermò dinnanzi all’uomo.
— Ci sono cose che non posso prendere da questa terra — disse.
— Morgon, il potere che hai sentito è in ciò che resta dei Signori della Terra morti. Quelli che combatterono al mio fianco su questa piana. E il potere sarà lì, quando ne avrai bisogno.
Qualcosa profondamente sepolto nella pace di Morgon sollevò il muso come un segugio cieco nel buio, all’odore delle parole del Supremo. — E l’arpa? E la spada? — chiese con calma. — Io capisco a stento il potere che contengono.
— Troveranno da sole il loro uso. Guarda.
Un fumoso banco di nebbia si stava spostando al suolo sulla pianura: erano vesta, sotto le nuvole basse e pesanti. Morgon li osservò incredulo, poi poggiò una tempia contro la pietra fredda. — Quando sono arrivati?
— La notte scorsa.
— Dov’è l’esercito di Astrin?
— Per metà è intrappolato fra Tor e Umber, ma l’avanguardia si è gettata allo sbaraglio, aprendo una strada per i vesta, le guardie della Morgol e i minatori di Danan. Sono alle spalle del branco. — Lesse nei pensieri di Morgon e strinse i pugni. — Non li volevo qui per combattere.
— E allora perché? — sussurrò lui.
— Tu ne avrai bisogno. Noi due dobbiamo metter fine a questa guerra quanto prima. È lo scopo per cui sei nato.
— Ma come?
Il Supremo non rispose subito. Dietro il suo sguardo tranquillo e introverso il giovane sentì una stanchezza e una pazienza oltre le umane capacità di comprensione: l’arpista attendeva che lui capisse, forse, qualcosa. Infine riprese, quasi dolcemente: — Il Principe di Hed e i suoi contadini si sono uniti all’esercito di Mathom, al confine meridionale. Se vuoi che restino in vita, devi trovare una soluzione.
Morgon girò su se stesso e si precipitò alle finestre opposte del locale, quasi che oltre la nuda boscaglia all’orizzonte fosse possibile vedere quella piccola truppa di contadini, armati di falci e di forconi. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. Con una stretta al cuore mormorò: — Ha lasciato Hed. Ha vestito da guerrieri i contadini e i pescatori, e ha lasciato Hed. Che sta succedendo al nostro mondo? È la fine?
— È venuto a battersi per te. E per la sua terra.
— No! — Si volse e strinse i pugni, ma non per l’ira. — È venuto perché tu lo volevi qui. E anche la Morgol, e Har… li hai spinti sulla stessa strada su cui hai spinto me, mettendo una spina di gelo e di mistero nel loro cuore. Che significa? Cos’è che non mi hai ancora detto?
— Io ti ho dato il mio nome.
Morgon tacque. Fuori stava cominciando a nevicare, grossi fiocchi che il vento faceva roteare. Una raffica glieli portò sul volto e sulle mani, dove bruciarono un attimo e svanirono. Un tremito lo scosse, e ad un tratto si rese conto che non aveva più voglia di far domande. Raederle aveva voltato le spalle ad entrambi. Appariva stranamente isolata nel centro della stanza. Quando Morgon le andò accanto rialzò la testa, ma evitò lo sguardo di lui per fissare il Supremo.
L’uomo le si avvicinò, quasi che ubbidisse al muto desiderio di lei come poco prima Morgon aveva ubbidito al suo. Le tolse dal viso una ciocca dei lunghi e scompigliati capelli di rame. — Raederle, è tempo che tu vada via.
Lei scosse il capo. — No — replicò con calma. — Io sono per metà una Signora della Terra. Dopo tutti questi secoli, avrai almeno uno dei tuoi consanguinei a battersi con te. Io non vi lascerò.
— Ma sei nell’occhio del ciclone.
— Ho scelto io di venire, e di stare con quelli che amo.
Lui tacque. Per un attimo tornò a essere soltanto l’arpista, senza età, imperscrutabile, solitario. — Tu!… — sussurrò poi. — Non me lo sarei aspettato. Così potente, così bella, e tanto amabile. Sei com’erano i nostri bambini, quando crescevano coi loro poteri, prima della guerra. — Le prese la mano sinistra e la baciò, poi guardò il bianco simbolo che le ornava il palmo. — Ci sono dodici venti — disse a Morgon. — Tenuti sotto controllo sono innocui. Scatenati, sono più terribili di ogni arma o potere di mago del reame. Essi sono anche i miei occhi e i miei orecchi, poiché possono plasmarsi in ogni cosa, sentire ogni parola, vedere ogni movimento, e sono dappertutto… La gemma che Raederle tenne in mano era stata tagliata e sfaccettata dai venti. Fui io a crearla allorché giocavo con loro, molto prima di usarli nella guerra. E in essa si rispecchiarono anche quei ricordi.
— Cosa stai cercando di dirmi? — La voce di lui tremava. — Io non posso dominare i venti.
— No, non ancora. Ma non preoccuparti. — Passò un braccio attorno alle spalle di Morgon, attirandolo nella sua immobilità. — Ascolta: in questa camera puoi udire la voce di tutti i venti del reame. Ascolta la mia mente.
Lui aprì i pensieri al silenzio del Supremo. I vaghi e incoerenti mormoni all’esterno della torre, filtrati dalla mente dell’uomo, si tramutavano in tutte le più affascinanti note dell’arpa stellata. La musica gli riempì il cuore dei dolci e leggeri venti estivi, e di quelli gelidi e selvaggi del nord; ed egli li amava, se li sentiva pulsare nel sangue. In lui nacque la brama di fermare quel momento, e restò legato nell’incantesimo dell’arpa e dell’arpista finché nel bianco cielo invernale brillò alta la luce del giorno.