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La musica d’arpa tacque. Morgon era senza voce, chiuso nel desiderio di trattenere al suo fianco il Supremo. Ma il braccio gli lasciò le spalle, e l’uomo lo fece voltare di fronte a sé.

— Ora — disse. — Abbiamo fra le mani una battaglia. Voglio che tu trovi Hereu Ymris. Stavolta ti darò un avvertimento: quando toccherai la sua mente, farai scattare una trappola preparata per te. I Signori della Terra sapranno dove sei, e che il Supremo è con te. Accenderai la scintilla della battaglia sulla piana. Loro dispongono di scarsi poteri mentali… li tengo ancora legati; ma hanno la mente di Ghisteslwchlohm, e useranno i suoi poteri di mago per tentare di ucciderti. Io cercherò di annullare ogni energia di cui lui farà uso.

Morgon si volse a guardare Raederle. Gli occhi di lei lo informarono di ciò che già sapeva: che niente di quanto poteva dire o fare l’avrebbe indotta a lasciarli. Chinò la testa allora, in un assenso diretto sia a lei che al Supremo. Poi lasciò che la sua mente si avventurasse nel silenzio dei territori umidi intorno alla torre. Sfiorò un singolo stelo d’erba, lo seguì col pensiero dalla radice alla cima. E appena fu penetrato nella struttura della legge della terra, appartenente ad Hereu, questo divenne il suo legame col Re di Ymris.

Avvertì un sottofondo di dolore costante, un groviglio di rabbia e di disperazione, e sentì in lontananza il vuoto scrosciare e ritrarsi delle onde fra gli scogli. Aveva stampata dentro di sé la forma di ogni pietra e di ogni roccia sporgente dalla costa, e subito riconobbe un tratto di riva dinnanzi a Meremont. Sentì odore di legno bagnato e di cenere: il Re giaceva in una capanna di pescatori mezzo bruciata, sulla spiaggia, a non più di mezzo miglio dalla Piana del Vento.

Trasalì e fece per parlare. Ma d’un tratto i flutti lo investirono, sommergendo i suoi pensieri. Gli parve di guardare giù per un lungo e oscuro tunnel fin dentro gli occhi dorati, alieni, di Ghisteslwchlohm.

Avvertì riconoscimento e stupore in quella mente prigioniera. Poi un arpione fatto di pensiero si proiettò in lui per catturarlo, e le pupille del mago bruciarono nelle sue, avide e feroci. Il contatto mentale s’interruppe, Morgon se ne allontanò in fretta. Il Supremo lo afferrò per le spalle vedendolo vacillare, e tornato in se stesso lui cercò ancora di parlare, ma lo sguardo del falco lo azzitti.

Attese, scosso da improvvisi e violenti battiti di cuore. Legata alla stessa attesa Raederle sembrava di nuovo remota, come appartenente a un’altra parte del mondo. Disperatamente lui tentò di parlare, d’incrinare il silenzio che li schiacciava nell’immobilità, facendo di loro delle statue di pietra. Ma gli parve d’essere soltanto un’estensione del Supremo, senza una sua volontà, senza voce, senza iniziativa. Un movimento stracciò l’aria gelida, e poi un altro. La bruna e affascinante Signora della Terra che Morgon aveva conosciuto col nome di Eriel stava dinnanzi a loro, e al suo fianco c’era Ghisteslwchlohm.

Per qualche istante il Supremo saggiò il potere che s’era riunito contro di lui. Ci fu stupore e paura negli occhi della donna, allorché riconobbe l’arpista. Il mago, faccia a faccia col Supremo, con colui che aveva cercato per tanti secoli, parve sul punto di spezzare il legame che gli imprigionava la mente. Negli occhi del falco ci fu un vago sorriso, gelido come il cuore delle desolazioni nordiche.

— Anche la morte, Maestro Ohm — disse, — è un enigma.

Negli occhi di Ghisteslwchlohm lampeggiò una rabbia oscena. Qualcosa scaraventò Morgon attraverso la stanza. Urtò nella parete scura ed essa cedette sotto di lui, precipitando fuori in una nebbia nera e azzurra d’illusioni distrutte. Udì il grido di Raederle, e nella sua visione confusa un corvo balzò in alto. Cercò di afferrarlo, ma il volatile gli passò fra le mani e sfuggì all’esterno. Scorse il volto di Ghisteslwchlohm avvolto in una strana luce: al suo fianco ci fu uno strappo ed egli gemette, senza capire cosa gli era stato strappato via. Poi si volse e vide la spada stellata nelle mani di Ghisteslwchlohm; la lama si sollevò lenta, lampeggiando minacciosa d’ombra e di luci, finché le stelle bruciarono di fuoco incombendo su Morgon. Lui non riuscì a fare un sol gesto: le stelle gli strappavano l’energia, fisse come luci ipnotiche nelle sue pupille. Vide la lama raggiungere l’apice e fermarsi, e poi lampeggiare in un fendente diretto verso di lui. In quell’istante nel suo campo visivo ci fu il corpo dell’arpista, in piedi sotto quella falce di luce, calmo com’era stato nel salone del Re ad Anuin.

Dalla gola di Morgon sfuggì un rantolo. L’affilatissima lama piombò con un terribile rumore sul corpo del Supremo. Lo colpì dritto al cuore, e nello stesso momento si frantumò con uno schiocco fra le mani di Ghisteslwchlohm. Morgon balzò in ginocchio, abbracciando il corpo inerte mentre cadeva. Non riuscì neppure a trarre il fiato, trafitto anch’egli in fondo al cuore da una lama di dolore. Il Supremo gli chiuse le dita adunche su una spalla; le sue mani erano quelle spezzate dell’arpista, quelle segnate da cicatrici del mago. Cercò di ansimare qualcosa; il volto gli si confuse da una forma all’altra, nelle lacrime attraverso cui Morgon lo guardava. Il giovane lo strinse a sé, mentre nel petto gli cresceva un grido di furia e d’agonia, ma il Supremo era già sul punto di svanire nel niente. Con una mano fatta di pietra scarlatta, o di fuoco, sfiorò le stelle sulla fronte di lui. Sussurrò il nome di Morgon; la mano ricadde a contatto del suo cuore. — Libera i venti!

CAPITOLO SEDICESIMO

Un urlo, che non era un Grande Urlo ma la voce stessa del vento, esplose dalla bocca di Morgon. Il corpo del Supremo divenne fiamma fra le sue mani, e poi fu soltanto un ricordo. Il suono da lui creato echeggiò nella torre: una nota bassa che crebbe e crebbe finché le pietre intorno a lui cominciarono a tremare. I venti si precipitarono nelle finestre vibrando come corde d’arpa al suo dolore. Ed egli non seppe mai, fra tutte le caotiche e selvagge voci che risuonavano, quale fosse la propria. Annaspò in cerca dell’arpa. Le stelle su di essa erano diventate nere come la notte. La colpì con una mano, o forse con un vento più affilato di un coltello, e le corde si schiantarono. Nell’istante in cui la corda più bassa gemeva, spezzandosi, la pietra e l’illusione della pietra che lo circondava si squarciò all’esterno e tutto precipitò nel vuoto.

Il suo corpo fu squassato da venti che avevano il colore delle pietre: d’oro e di fuoco, d’avorio e di tenebra. Con un boato l’intera torre collassò, rovinando al suolo in un gigantesco cumulo di macerie. Quando il polverone si diramò e Morgon riprese la sua forma, si ritrovò in ginocchio con le mani fra le erbacce poco lontano da lì. Non percepiva da nessuna parte la presenza del potere di Ghisteslwchlohm, né quello di Eriel, come se nel suo momento fatale il Supremo li avesse legati alla sua morte e portati nel nulla con sé. Sopra di lui roteava la neve, in fiocchi che si scioglievano appena a contatto del terreno. Il cielo era bianco come le ossa dei morti.

La sua mente era intrecciata alla legge della terra. Sentì il silenzio delle radici dell’erba che aveva sotto le dita; vide il mucchio di pietrisco in cui era crollata la Torre del Vento attraverso gli occhi di uno spettro di An fermo al bordo della piana. Fu un grande albero che si piegava sotto il temporale sull’umido fianco di un colle nell’entroterra. Fu un trombettiere dell’esercito di Astrin, con il boccaglio del suo lungo strumento dorato poggiato alle labbra. In lui riecheggiarono i pensieri dei sovrani, pieni di paura e di dolore senza che essi capissero il perché. L’intero reame gli sembrò chiuso lì nell’erba fra le sue mani, penetrava in lui e lo scuoteva, dal gelo del settentrione alla sfarzosa corte di Anuin. Lui era di pietra, acqua, un campo abbandonato, un uccello che lottava col vento, un Re ferito e disperato sulla costa della Piana del Vento, era tutti i vesta, gli spettri, mille misteri del suolo, una timida strega, un branco di maiali parlanti e molte torri solitarie le cui stanze erano quelle della sua mente. Il trombettiere aspirò l’aria e soffiò con tutta la sua forza. Nello stesso momento un Grande Urlo si levò dall’esercito di An, echeggiando a meridione della piana. Quei suoni, insieme al repentino afflusso di conoscenza e al lutto che gravava sul suo cuore, d’un tratto sopraffecero Morgon. Con un gemito cadde bocconi, immergendo la faccia nell’erba bagnata.