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Sentì che la sua presenza li aveva attirati come lui era sempre stato attratto da Deth: senza nessuna ragione precisa, senza far domande, per semplice istinto. I sovrani del reame ed i quattro maghi lo stavano osservando, muti. Sembrava che non sapessero cosa dirgli, vedendolo lì nel suo potere e nel suo lutto; si limitavano a rispondere con la loro presenza all’uomo che aveva riportato la pace in quell’antica terra.

Lui fissò i volti che conosceva tanto bene. Su di essi si leggeva il dolore per il Supremo e per i loro morti. Scorgendo fra loro Eliard un fremito improvviso gli accelerò i battiti del cuore. Mai aveva visto quell’espressione negli occhi del fratello: era pallido e rigido come la maschera dell’inverno sulla terra. Un terzo dei contadini di Hed erano stati riportati nell’isola, per essere sepolti dove giacevano tutti i loro antenati. L’inverno sarebbe stato durissimo per i sopravvissuti, e Morgon non sapeva come confortarlo. Ma nel guardare Morgon, senza parole, gli occhi di Eliard rivelarono infine qualcosa che non aveva mai fatto parte della testarda schiatta dei Principi di Hed: egli era stato sfiorato dal brivido del mistero.

Lo sguardo di Morgon si spostò su Astrin, che sembrava ancora stordito dalla morte di Hereu e dal potere piombato all’improvviso sulle sue spalle. — Mi dispiace — gli disse. Le parole gli parvero lievi e senza significato come la neve su quelle pietre. — L’ho sentito morire. E non ho… non ho potuto aiutarlo. Ho sentito morire molti…

L’occhio bianco di Astrin non mutò espressione. — Tu sei vivo — sussurrò. — Tu, Supremo. Sei sopravvissuto fino a dare questo nome a te stesso, e hai portato la pace nel nostro giorno.

— Pace! — Sfiorò le pietre dietro di lui, fredde come il ghiaccio.

— Morgon — disse Danan a bassa voce, — quando abbiamo visto crollare questa torre, nessuno di noi si aspettava di arrivare vivo all’alba.

— Molti dei tuoi minatori sono morti. Troppi.

— Troppi, sì. Ma abbiamo ancora una grande montagna piena d’alberi. Tu ci hai dato una casa a cui tornare.

— Abbiamo vissuto per vedere il passaggio del potere dal Supremo al suo erede — disse Har. — Abbiamo pagato un prezzo per questo, ma… siamo sopravvissuti. — I suoi occhi azzurri ebbero una scintilla gentile, e si aggiustò il mantello sulle spalle; un vecchio e ossuto Re con i più antichi ricordi del reame nel suo cuore. — Hai giocato splendidamente la tua gara e hai vinto. Non addolorarti per il Supremo. Era vecchio, e vicino alla fine del suo potere. Ti ha lasciato un reame in guerra, un’eredità quasi impossibile e tutte le sue speranze. E tu non l’hai deluso. Ora noi possiamo tornare a casa in pace, senza più temere lo straniero che bussa alla nostra porta. E quando accadrà che una raffica di vento apra la porta, se alzeremo gli occhi dal focolare forse sorrideremo vedendo comparire il Supremo a farci visita. Vedremo te. Lui ci ha lasciato questo dono.

Morgon tacque. Malgrado le loro parole in lui c’era il freddo della tristezza. Poi percepì in uno di essi un lutto così greve che nessuna riflessione avrebbe potuto lenire. Scrutò attorno in cerca di quei pensieri e li lesse sul volto di Mathom, stanco e oscurato da un’angoscia funerea.

Fece un passo verso di lui. — Chi?

— Duac — mormorò il Re. Trasse un lungo respiro, immobile e cupo come uno spettro sulla neve. Si è rifiutato di restare ad Anuin… la sola volta che ho perso in una discussione con lui. Il mio Erede con gli occhi di mare…

Morgon chinò il capo, muto, chiedendosi quanti altri legami fossero stati spezzati, quanti altri uomini non avesse sentito morire. Ripensando al passato disse: — Tu sapevi che il Supremo sarebbe morto qui.

— Lui diede il nome a se stesso — rispose Mathom. — Non ho avuto bisogno di sognare questo. Seppelliscilo qui, dove ha scelto di morire. E cerca di darti pace.

— Non posso — sussurrò lui. — Io sono stato la sua morte. Lo sapeva. Per tutto questo tempo lo ha sempre saputo. Ero il suo destino, come lui era il mio. Le nostre vite sono state un’interminabile gara di enigmi… Ha forgiato la spada che lo avrebbe ucciso, e io l’ho portata qui. Se solo avessi capito… se avessi saputo!

— Cos’avresti potuto fare? Lui non aveva la forza per vincere la guerra; sapeva che l’avresti avuta tu, se ti avesse dato il suo potere. Dunque a suo modo ha vinto. Accetta il fatto.

— Non posso… non ancora. — Sfiorò con un’ultima carezza il cumulo di pietre prima di allontanarsi. Poi alzò gli occhi a esplorare il cielo in cerca di qualcosa che la sua mente non percepiva. Si accigliò, impallidendo. — Dov’è Raederle?

— È stata con me, per un poco — lo informò la Morgol. Appariva calma, quasi assorbita dalla pace che quel mattino invernale soffondeva sul mondo. — Poi è andata via per cercarti, o così credevo, ma forse aveva bisogno di piangere da sola. — Gli mise una mano su una spalla. — Morgon, lui è morto. Ma almeno, per un po’ tu gli hai dato qualcosa da amare.

— Anche tu gli hai dato molto — sussurrò lui. E poi volse loro le spalle e se ne andò, per cercare un po’ di conforto da qualche parte nel reame. Diventò neve, o aria, o forse restò se stesso; non ci badò e non ne fu certo. Seppe soltanto che non volle lasciare impronte nella neve, perché nessuno potesse seguirlo.

Vagò attraverso molte terre, assumendo ora l’una ora l’altra forma, e rinsaldò i legami spezzati, finché non vi fu più un albero o un insetto o un uomo nel reame di cui non fosse conscio, eccetto una donna. I venti che tutto sfioravano nella loro indiscreta curiosità gli dissero di guerrieri senza più casa ospitati alla corte di Astrin, di mercanti in viaggio sul mare per portare grano da An a Herun, e birra da Hed al continente sconvolto dalla guerra. Lo informarono quando i vesta fecero ritorno in Osterland, e di come il Re di An avesse nuovamente legato i suoi spettri alle Tre Parti del regno. Essi ascoltarono i maghi, a Caithnard, allorché discussero il progetto di riaprire la Scuola di Lungold, mentre i Maestri scrivevano le ultime risposte sulla lista degli enigmi non risolti. Sentì che Har si aspettava di vederlo ben presto, seduto davanti al caminetto coi suoi lupi accovacciati ai piedi. E sentì gli occhi d’oro della Morgol guardare ogni tanto oltre i colli di Herun, in cerca di lui, talora in cerca di Raederle, piena di domande su ambedue.

Cercò di metter fine al suo dolore stando seduto per giorni e giorni nelle desolazioni del nord, come un ciocco radicato al suolo, concentrato su quel che aveva fatto l’arpista, una manovra dopo l’altra, finché ogni azione di lui gli fu chiara. Ma capire non gli portò conforto. Cercò di suonare l’arpa, usando come strumento il vento che spirava nel cielo colmo di stelle, e neanche questo gli diede la pace. Si spostò dai ghiacci alle colline pietrose e alle foreste, e andò perfino a sedersi davanti al fuoco nelle taverne e nelle fattorie, dove gli sconosciuti che vagavano nel freddo tornavano ad essere accolti con animo lieto. Non sapeva quali desideri si agitavano nel suo cuore, perché nel cuore aveva ancora il fantasma dell’arpista che non riusciva a dissolversi e ad avere riposo.

Un giorno si trascinò fuori da sotto un cumulo di neve, nel settentrione desolato, attirato verso il sud da qualcosa che non riuscì a definire. Scese attraverso il reame mutando forma varie volte senza che nessuna di esse smorzasse la sua inquietudine, mentre anche nelle regioni fredde arrivava la primavera. I venti dell’ovest e del meridione portavano l’odore della terra fertile e del sole, e le invisibili corde della sua arpa avevano assunto note più gentili. Ma lui non si sentiva ingentilito affatto. Avanzò in forma-orso schiantando il sottobosco delle foreste, e quando sentì il calore del sole s’innalzò in forma-falco nella luce. Per tre giorni restò appollaiato sul pennone di una nave mercantile che beccheggiava sul mare agitato, finché i marinai, stanchi di vedere quell’uccello dagli occhi così strani, lo scacciarono. Seguì allora la costa di Ymris, talora in volo, talaltra a nuoto, oppure al galoppo con branchi di cavalli selvatici, finché non giunse sulla riva di Meremont. Lì sentì l’odore dei ricordi rimasti sulla Piana del Vento.