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Mi circondarono in maniera ancora più compatta; dovevano essere alcune centinaia. La luce che emanavano divenne tanto forte che io riuscii a vedere bene le masse squadrate intraviste prima: erano veramente edifici, all’apparenza antichissimi, fatti di pietra grigia senza commessure e ricoperta dal guano dei pipistrelli.

I pilastri irregolari erano in realtà mucchi di lingotti nei quali ogni strato era stato posto di traverso sul precedente. Dal colore dedussi che si trattasse di argento. Ogni mucchio conteneva cento pezzi e nella città sepolta i mucchi erano centinaia.

Osservai tutto quello mentre retrocedevo di una mezza dozzina di passi. Al settimo passo gli uomini-scimmia mi balzarono addosso; erano almeno una ventina, e venivano da tutte le parti. Non mi lasciavano il tempo di sferrare colpi netti al collo. Mulinai la spada in cerchio e il suo canto colmò quel mondo sotterraneo echeggiando dalle pareti alla volta di pietra, più intenso dei muggiti e delle urla dei miei assalitori.

In situazioni come quella, il senso del tempo viene a mancare. Ricordo l’attacco fulmineo, i colpi che riuscii a sferrare freneticamente, ma a ripensarci tutto sembra successo in un lampo. Caddero, cinque, dieci, fino a quando intorno a me l’acqua venne annerita dal sangue e intasata dai moribondi e dai morti; ma gli assalitori continuavano a farsi avanti. Un colpo mi si abbatté sulla spalla come il pugno di un gigante. Terminus est mi scivolò via dalla mano e il peso dei corpi mi travolse, fino a che mi ritrovai a lottare sott’acqua, alla cieca. Le zanne del mio avversario mi lacerarono il braccio come aculei metallici, ma lui aveva paura di annegare, credo, così non continuò a lottare come avrebbe potuto fare. Gli infilai le dita nelle larghe narici e gli spezzai il collo, che mi era parso più robusto di quello di un uomo normale.

Se fossi riuscito a trattenere il respiro fino alla galleria sarei stato salvo. Sembrava che gli uomini-scimmia mi avessero perso di vista, così mi lasciai scivolare sott’acqua e seguii la corrente per un breve tratto. Ma i miei polmoni stavano per scoppiare; portai la faccia in superficie e gli uomini-scimmia mi balzarono addosso.

Ogni uomo a un certo punto della sua vita deve morire. Io ero convinto che il mio momento fosse quello, perciò tutta la vita che ho vissuto da allora in poi mi è sembrata un puro guadagno, un dono immeritato. Ero disarmato e il mio braccio destro era intorpidito e lacerato. Gli uomini-scimmia si erano fatti arditi e il loro ardimento mi concesse un altro momento di vita perché si affollarono talmente in tanti per uccidermi che finirono per ostacolarsi a vicenda. Sferrai un calcio a uno mentre un altro mi stringeva lo stivale. Notai un bagliore di luce; mosso da chissà quale istinto o ispirazione lo afferrai. Era l’Artiglio.

Come se attirasse a sé quella luce cadaverica e la tingesse con il colore della vita, colmò la caverna di una luce azzurro limpido. Nel tempo di un battito del cuore gli uomini-scimmia si fermarono, come a un colpo di gong, e io sollevai la gemma sopra la testa: non saprei dire in quale frenesia sperassi in quel frangente, ammettendo che sperassi in qualcosa.

Quanto successe fu comunque molto diverso. Gli uomini non scapparono urlando e non rinnovarono l’attacco. Invece arretrarono fino a quando i più vicini si trovarono a circa tre passi di distanza e si accovacciarono, premendo il volto contro il fondo della miniera. Si diffuse nuovamente il silenzio che avevo trovato al mio arrivo: non si udiva nulla all’infuori del mormorio del ruscello. Ma a quel punto potevo vedere tutto, dai mucchi di lingotti d’argento macchiato che mi stavano accanto fino all’estremità, dove gli uomini-scimmia erano scesi da un muro in rovina, entrando nella mia visuale come punti di fuoco pallido.

Iniziai a indietreggiare. Gli uomini-scimmia rialzarono la testa e i loro volti erano volti umani. Quando li vidi, capii gli eoni di lotte nel buio che avevano generato i loro occhi enormi, le zanne e gli orecchi penduli. Secondo i maghi noi un tempo eravamo scimmie e vivevamo felici nelle foreste inghiottite dai deserti in tempi tanto lontani da non avere nemmeno un nome. I vecchi, quando alla fine gli anni oscurano le loro menti, tornano bambini. Allora non è possibile che l’umanità, alla pari dei vecchi, ritorni a quello che era un tempo, se finalmente il vecchio sole si spegnerà e noi rimarremo immersi nell’oscurità a inciampare nelle ossa? Io vidi in quegli esseri il nostro futuro — o almeno uno dei nostri possibili futuri — e provai angoscia per coloro che avevano vinto le battaglie delle tenebre molto più che per quelli che avevano versato il loro sangue in quella interminabile notte.

Arretrai di un altro passo e nessuno degli uomini-scimmia si mosse. Allora mi sovvenni di Terminus est. Avrei provato un grande disprezzo nei confronti di me stesso se l’avessi abbandonata, anche se fosse stato per sottrarmi alla battaglia più impetuosa. Uscire incolume da quella miniera senza la spada era un pensiero insopportabile. Ripresi ad avanzare, cercando la lama lucente nella luce dell’Artiglio.

I volti di quegli strani uomini deformi parvero illuminarsi e notai nelle loro espressioni la speranza che io restassi con loro e che l’Artiglio, con la sua luce azzurra, li rischiarasse per sempre. Quanto mi pare orribile, mentre scrivo queste parole sulla carta! Ma non credo che sarebbe stato tanto orribile nella realtà. Per quanto il loro aspetto fosse bestiale, sui loro volti era dipinta l’adorazione; pensai — e lo penso ancora — che se sotto molti aspetti erano peggiori di noi, sotto altri dovevano essere migliori, benedetti com’erano da una torva innocenza.

Cercai su entrambe le sponde ma non vidi niente, nonostante la luce dell’Artiglio brillasse più forte e ancora più forte, fino a che ogni pietra che pendeva dalla volta di quello slargo gettò un’ombra acuminata e nera come la pece. Infine urlai: — La mia spada… Dov’è la mia spada? L’ha presa qualcuno di voi?

Non avrei mai rivolto loro la parola se non fossi stato tanto sconvolto dalla paura di averla persa, comunque parvero aver capito. Iniziarono a confabulare tra di loro e a farmi dei cenni, senza alzarsi, come per farmi capire che non avrebbero più combattuto e allungandomi le loro mazze e le lance d’osso appuntito.

Poi, tra il mormorio dell’acqua e il borbottio degli uomini, udii un nuovo suono e subito tutti tacquero. Solo un orso che sgranocchiasse le gambe del mondo potrebbe produrre quel rumore. Il letto del ruscello, nel quale io ero ancora immerso, tremò sotto di me e l’acqua, che fino a quel momento era stata tanto trasparente, venne offuscata da un carico di sedimenti simile a un nastro di fumo. Dal basso giunse un passo che avrebbe potuto essere quello di una torre nell’Ultimo Giorno, quando si dice che tutte le città di Urth si avvieranno a salutare l’alba del Nuovo Sole.

Un altro.

Improvvisamente gli uomini-scimmia si alzarono e, rimanendo curvi, fuggirono verso l’estremità più lontana della galleria, silenziosi e veloci come pipistrelli. Insieme a loro se ne andò anche la luce perché l’Artiglio, come in un certo senso avevo temuto, aveva brillato per loro e non per me.

Dalle profondità del suolo salì un terzo passo e l’ultimo barlume si spense; ma in quell’istante, nell’ultimo chiarore, vidi Terminus est nell’acqua più profonda. Mi piegai nell’oscurità e, riponendo l’Artiglio nello stivale, riafferrai la spada; mentre la recuperavo mi resi conto che l’indolenzimento al braccio mi aveva abbandonato e mi sentii forte come prima della battaglia.

Risuonò un quarto passo e io mi voltai e fuggii, a tentoni e allungando la spada davanti a me. Adesso credo di sapere quale creatura avessimo evocato dalle radici del continente, ma allora non ne avevo idea e non sapevo nemmeno se a evocarla fosse stato il ruggito degli uomini-scimmia o la luce dell’Artiglio o qualche altra cosa. Sapevo solo che c’era qualcosa, sotto di noi, qualcosa dinnanzi alla quale gli uomini-scimmia, nonostante il loro terribile aspetto e il loro numero, si erano dispersi come scintille al vento.