Выбрать главу

Il volto di Thecla era ancora dinnanzi a me, ma era scosso da un vento buio e a poco a poco svanì. — Se l’avessi usato, se avessi invocato il potere dell’Artiglio quando eravamo al banchetto dei morti…

— L’ulano stava per soffocare, ma non era completamente morto. Quando gli ho estratto le notule è riuscito a respirare di nuovo e dopo un po’ ha recuperato i sensi. In quanto alla tua Thecla, nessun potere dell’universo avrebbe potuto restituirle la vita. Devono averla esumata quando tu eri ancora imprigionato nella Cittadella e poi l’avranno custodita in una grotta colma di ghiaccio. Prima che noi la vedessimo, l’avevano sventrata come una pernice e avevano arrostito le sue carni. — Jonas mi strinse fortemente il braccio. — Severian, non essere stupido!

In quel momento volevo solo morire. Se la notula fosse ricomparsa, l’avrei abbracciata. Quello che invece vidi in fondo al sentiero, in lontananza, era una sagoma bianca uguale a quella che avevo avvistato vicino al fiume. Mi allontanai da Jonas e mi lanciai al galoppo verso di essa.

XIV

L’ANTICAMERA

Vi sono esseri — e manufatti — contro i quali lottiamo inutilmente con la nostra intelligenza e ai quali infine ci arrendiamo dicendo: Si trattava di un’apparizione, una cosa bellissima e orribile.

Da qualche parte, in uno dei mondi turbinanti che fra poco esplorerò, vive una razza simile e nello stesso tempo diversa da quella umana. Non sono molto più alti di noi. I loro corpi sono uguali ai nostri, ma sono perfetti e il loro modello ci è estraneo. Come noi, hanno occhi, naso e bocca, ma si servono di tali connotati, che come ho già detto sono perfetti, per esprimere emozioni che noi non abbiamo mai provato e perciò vedere i loro volti è come guardare un antico e terribile alfabeto di sentimenti, contemporaneamente importante e del tutto incomprensibile.

Tale razza esiste, ma non la incontrai là ai margini della Casa Assoluta. Quello che avevo visto muoversi fra le piante e verso cui mi ero lanciato — fino a quando non lo vidi chiaramente — era piuttosto l’immagine gigantesca di un simile essere, animata dalla vita. La carne era di pietra bianca e gli occhi possedevano la cecità tondeggiante e levigata, come sezioni ricavate da gusci d’uovo, che generalmente cogliamo nelle nostre statue. Si muoveva adagio, come un drogato o un sonnambulo ma non barcollava. Sembrava cieco, ma con una propria consapevolezza, per quanto tarda.

Mi sono soffermato a rileggere quello che ho scritto e mi sono accorto di non essere affatto riuscito a spiegare l’essenza di quella cosa. Il suo spirito era quello della scultura. Se un angelo caduto avesse sentito la mia conversazione con l’uomo verde, probabilmente avrebbe escogitato un simile enigma per prendersi gioco di me. Ogni suo movimento aveva la serenità e la permanenza dell’arte e della pietra. Avevo la sensazione che ogni gesto, ogni posizione assunta dalla testa, dagli arti e dal busto, potesse essere l’ultimo; oppure che ciascuno potesse ripetersi all’infinito, come le posizioni degli gnomoni nella meridiana sfaccettata di Valcria si ripetevano lungo i corridoi curvilinei degli istanti.

La mia paura iniziale, dopo che la stranezza della statua ebbe annullato il mio desiderio di morte, fu la paura istintiva che mi facesse del male.

Il mio secondo terrore fu che non ci provasse. Aver sentito tanto timore per quella figura silenziosa e inumana e poi accorgersi che non era sua intenzione farmi del male, sarebbe stato insopportabilmente umiliante. Dimenticando il danno che avrebbe subito la sua lama nel colpire quella pietra vivente, sguainai Terminus est e frenai il destriero nero. La brezza stessa sembrò fermarsi mentre stavamo così, il destriero che fremeva appena, io con la spada innalzata, quasi immobili anche noi come statue. La vera statua si incamminò verso di noi, il suo volto grande tre o quattro volte il normale, recava impresso un sentimento inconcepibile e le sue membra erano avvolte da una bellezza perfetta e terribile.

Udii il grido di Jonas e l’eco di un colpo. Ebbi appena il tempo di vederlo a terra mentre lottava con alcuni uomini dagli alti elmi con il pennacchio che scomparvero e riapparvero mentre li fissavo, quando qualcosa mi sibilò accanto all’orecchio; qualcos’altro mi colpì il polso e io mi ritrovai a dimenarmi in una rete di corde che mi stringevano come tanti piccoli boa. Qualcuno mi prese per una gamba e mi fece cadere.

Quando ripresi i sensi abbastanza da rendermi conto di quello che stava succedendo, avevo un cappio di metallo intorno al collo e uno degli uomini che mi avevano catturato stava frugando nella mia borsa. Distinguevo chiaramente le sue mani che sfrecciavano come passeri bruni. Anche il suo volto era visibile, una maschera impassibile che pareva sospesa su di me da un prestigiatore. Un paio di volte, mentre si spostava, l’incredibile armatura che portava emise un luccichio; poi la vidi come si può vedere un bicchiere di cristallo immerso nell’acqua trasparente. Rifletteva la luce, credo, ed era brunita in misura maggiore alle possibilità umane, così che il materiale di cui era composta risultava invisibile e si scorgevano solo il verde e il marrone del bosco, deformati dalle curve della corazza, della gorgiera e dei gambali.

Nonostante le mie proteste in qualità di membro della corporazione, il pretoriano prese tutti i soldi che avevo, ma mi lasciò il libro marrone di Thecla, il mio frammento di cote, l’olio e la flanella e gli altri oggetti che avevo nella borsa. Quindi, con agilità, ritirò le corde che mi tenevano prigioniero e, per quanto riuscii a capire, le mise nel foro della corazza, non prima che io le avessi viste. Mi facevano venire in mente la frusta che noi chiamiamo «gatto» ed erano un intrico di cinghie unite a un’estremità e appesantite all’altra; successivamente avrei imparato che quell’arma si chiama achico.

Il mio custode tirò il cappio metallico, obbligandomi ad alzarmi. Come in altre simili occasioni, capivo che in un certo senso stavamo portando avanti un gioco. Stavamo fingendo che io fossi completamente in suo possesso, quando in realtà avrei potuto oppormi e restare seduto fino a che lui mi avesse strangolato o avesse chiamato alcuni compagni per trasportarmi. Avrei anche potuto fare molte altre cose: prendere la corda metallica e cercare di strappargliela, colpirlo in faccia. Avrei potuto scappare, restare ucciso, perdere la coscienza o precipitare nel dolore; ma non ero costretto a fare quello che feci.

Per lo meno, io sapevo che si trattava di un gioco, e sorrisi mentre il pretoriano riponeva Terminus est nel fodero e mi portava vicino a Jonas.

— Non abbiamo fatto niente di male — diceva Jonas. — Restituite la spada al mio amico e riconsegnateci i nostri animali, ce ne andremo.

Non ebbe risposta. Silenziosamente due pretoriani (a me parvero quattro passeri svolazzanti) presero i nostri destrieri e li portarono via. Com’erano simili a noi quelle bestie, mentre camminavano pazientemente senza sapere dove fossero dirette, con le teste massicce che seguivano sottili fili di cuoio! Nove decimi della nostra vita, almeno così mi pare, sono fatti di queste rese!

Gli uomini che ci avevano catturato ci condussero fuori dal bosco, fino a un prato ondulato. La statua ci seguiva e altre molto simili si unirono a noi fino a quando furono una dozzina o più, tutte immense, diverse e bellissime. Domandai a Jonas chi fossero quei soldati e dove ci stessero portando, ma lui non mi rispose e io per poco non mi strangolai.

Per quanto potevo capire, i pretoriani erano corazzati dalla testa ai piedi, ma la perfetta lucentezza del metallo dava loro una morbidezza apparente e quasi liquida che era profondamente angosciante per l’occhio e che gli consentiva di dissolversi nel cielo e nell’erba a pochi passi di distanza. Dopo mezza lega di cammino attraverso il prato, ci addentrammo in un boschetto di susini in fiore, e subito gli elmi con i pennacchi e le corazze danzarono di riflessi dorati e bianchi.