Imboccammo un sentiero che curvava e curvava ancora. Proprio quando stavamo per riemergere dal boschetto ci arrestammo e io e Jonas venimmo spinti violentemente indietro. Udii i piedi delle statue di pietra che ci seguivano stridere sulla ghiaia mentre si fermavano; uno dei soldati le tenne a distanza con quello che a me parve un grido senza parole. Curiosai fra i fiori per vedere cosa stesse accadendo davanti a noi.
Vidi un sentiero molto più largo di quello su cui ci trovavamo. In realtà si trattava di un viale, ingrandito al punto di trasformarsi in una splendida strada trionfale. Il lastricato era di pietra bianca e balaustrate di marmo lo fiancheggiavano su entrambi i lati. Lungo il viale marciava una variopinta compagnia. Quasi tutti i suoi componenti erano in piedi, ma alcuni montavano animali di vario tipo. Uno conduceva per la briglia un irsuto artoterio, un altro stava appollaiato sul collo di un bradipo di terra, più verde dei prati. Non appena quel gruppo si allontanò ne sopraggiunsero altri. Nonostante fossero ancora troppo lontani per distinguere i loro volti, scorsi un gruppo nel quale la testa china di un individuo si ergeva di almeno tre cubiti sopra le altre. Un istante più tardi riconobbi in un altro dei suoi componenti il dottor Talos, che avanzava pomposamente con il petto in fuori e la testa alta. Dietro di lui camminava la mia cara Dorcas, più che mai con l’aspetto di una bambina desolata piombata lì da più alte sfere. Svolazzante di veli e scintillante di gioielli falsi sotto il parasole, Jolenta avanzava su un piccolissimo ginetto; e dietro a tutti, spingendo pazientemente sulla carriola tutto quanto non riusciva a trasportare sulle spalle, veniva quello che avevo riconosciuto per primo, il gigante Baldanders.
Se per me fu doloroso vederli passare senza poterli chiamare, per Jonas fu un vero tormento. Proprio quando era davanti a noi, Jolenta voltò la testa. A me parve che avesse percepito il suo desiderio, come si dice che fra le montagne alcuni spiriti immondi siano attratti dall’odore della carne che è stata gettata per loro sul fuoco. Sicuramente furono solo gli alberi in fiore ad attirare la sua attenzione. Udii Jonas prendere fiato; ma la prima sillaba del nome di Jolenta venne soffocata dal rumore del colpo che seguì, e lui cadde a terra ai miei piedi. Quando ripenso a quella scena, il tonfo della sua mano metallica sulla ghiaia del sentiero rivive intenso come il profumo dei fiori di susino.
Quando tutte le compagnie di comici furono passate, due pretoriani sollevarono il corpo del povero Jonas e lo trasportarono. Lo fecero facilmente, come se si fosse trattato di un bambino, e allora lo attribuii solo alla loro forza. Attraversammo la strada che gli attori avevano percorso e oltrepassammo una siepe di rose più alta di un uomo, coperta d’immensi fiori bianclù e brulicante di uccellini.
Oltre la siepe si trovavano i giardini veri e propri. Se cercassi di descriverli, darei l’impressione di aver preso in prestito il demenziale e balbettante eloquio di Hethor. Ogni collina, pianta, fiore parevano disposti da un’intelligenza suprema (che in seguilo ho appreso essere stata quella di Padre Inire) per creare una visione incredibile. L’osservatore ha la sensazione di essere nel centro e che tutto quello che vede è orientato verso il punto in cui si trova; ma dopo aver percorso cento passi o una lega, si ritrova ancora al centro. Ogni visione sembra voler esprimere una verità incomunicabile, come una di quelle intuizioni inesprimibili caratteristiche degli eremiti.
Quei giardini erano talmente belli che passò parecchio tempo prima che ci rendessimo conto che non si vedeva nessuna torre. Solo uccelli e nuvole, e al di là di essi il vecchio sole e le stelle pallide si innalzavano più alti delle cime degli alberi: sembrava di vagare in un mondo incantato. Quindi raggiungemmo la cresta di un’ondulazione del terreno, più affascinante di ogni ondata di cobalto di Uroboros, e con un’incredibile rapidità un abisso si aprì ai nostri piedi. Ho detto abisso, ma in realtà non assomigliava affatto a quello che viene comunemente definito in tal modo. Si trattava piuttosto di una grotta colma di fontane e di fiori notturni e costellata di persone più brillanti dei fiori, persone che oziavano vicino alle sue acque e che chiacchieravano nelle sue ombre.
Improvvisamente, come se un muro fosse crollato per lasciar penetrare la luce in una tomba, molti ricordi della Casa Assoluta acquisiti con l’assorbimento della vita di Thecla presero forma dentro di me. Capii qualcosa che era stato sottinteso nel dramma del dottore e in molte storie che Thecla mi aveva raccontato senza mai farvi un chiaro accenno: tutto il grande palazzo era sottoterra… o meglio, i tetti e i muri erano ricoperti di terriccio costellato di piante e fiorito, così che non avevamo fatto altro che camminare sopra la dimora dell’Autarca. che io avevo pensato essere ancora distante.
Non scendemmo in quella grotta, che sicuramente portava in camere del tutto inadatte alla custodia dei prigionieri, e non scendemmo in nessuna delle venti o più grotte che incontrammo in seguito. Infine ne raggiungemmo una più buia sebbene non meno bella. La scala per mezzo della quale vi si accedeva dava l’impressione di una formazione naturale di roccia scura, irregolare e pericolosa. Dall’alto sgocciolava l’acqua e nella parte superiore della caverna, dove arrivava ancora luce, crescevano felci ed edere scure. Mille gradini più in basso, le pareti erano ricoperte di funghi ciechi; alcuni erano luminescenti, altri colmavano l’aria di uno strano odore di muffa, altri ancora rammentavano fantasiosi feticci fallici.
Nel mezzo di quel giardino, sorretti da impalcature e coperti di verderame, erano appesi numerosi gong. Mi sembrarono creati per essere percossi dal vento, ma era impossibile che il vento li potesse raggiungere lì sotto.
Così pensavo, almeno, fino a quando uno dei pretoriani spalancò una pesante porta di bronzo e di legno tarlato in una delle pareti di pietra scura. In quel momento, un soffio d’aria fredda e asciutta passò attraverso l’apertura e fece oscillare e scontrare i gong, talmente intonati fra di loro che il suono prodotto mi sembrò la composizione studiata da qualche musicista i cui pensieri erano stati esiliati lì.
Osservando i gong (i pretoriani non mi proibirono di farlo) vidi le statue che ci avevano seguito attraverso i giardini: erano una quarantina e stavano orlando l’abisso, finalmente immobili. Ci fissavano dall’alto come un fregio di cenotafi.
Ero convinto che mi avrebbero messo in una piccola cella da solo, inconsciamente trasferendo su quel posto le abitudini delle nostre segrete, ma non potevo essere più lontano dalla realtà. L’entrata non si apriva su un corridoio fiancheggiato di anguste porte, ma su una spaziosa galleria, il cui pavimento era ricoperto di tappeti e che aveva un’altra entrata dal lato opposto. Gli hastarii armati di lance fiammeggianti erano di guardia di fronte alla seconda porta. Alla parola di uno dei pretoriani le sentinelle spalancarono i battenti: vidi un’immensa stanza spoglia e semibuia, con il soffitto molto basso. Diverse dozzine di persone, uomini, donne e persino alcuni bambini, erano sparse dappertutto… quasi tutti se ne stavano da soli, alcuni invece formavano coppie o gruppetti. Le famiglie occupavano le alcove e in alcuni punti scorsi dei paraventi di stracci costruiti per garantirsi un po’ di intimità.
Fummo fatti entrare in quella camera. O meglio, io venni spinto e lo sventurato Jonas fu gettato. Cercai di sorreggerlo mentre cadeva, ma riuscii solo a impedire che sbattesse la testa sul pavimento. In quell’istante udii i battenti richiudersi rumorosamente dietro di me.
XV
IL FUOCO DELLA PAZZIA