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In teoria, sia i reattori sia i trasformatori d’energia che convertivano il calore del plasma di fusione in elettricità avrebbero dovuto essere silenziosi. Ma percorrendo la passerella metallica sospesa sopra uno dei reattori, Dan sentiva attraverso le suole delle scarpe il brontolìo a bassa frequenza della stella incatenata ai comandi dell’uomo. Le piastre metalliche del pavimento vibravano, l’aria stessa sembrava greve del respiro di un gigante invisibile.

Dan si sporse dall’esile parapetto della passerella e rimase a guardare il gruppo di lavoro sul pavimento di sotto. Il parapetto poteva essere esile perché al livello 7 la gravità era un decimo di quella della Terra. E proprio per questo i costruttori dell’astronave avevano collocato l’attrezzatura più pesante lì, dove il peso era quasi inesistente e un uomo poteva sollevare da solo un generatore da cinque quintali.

Dan sentiva il parapetto tremare nelle sue mani, scosso dal canto subsonico dei reattori. I reattori erano piccoli a vedersi, nient’altro che un paio di cupole di metallo opaco del diametro di venti metri, simili a due uova deposte da un gigantesco uccello meccanico. Sul lato opposto del livello 7 c’erano un’altra coppia di reattori e generatori ausiliari. Tra le due bolle erano annidati gli strumenti di controllo e gli uffici del gruppo Propulsione e Potenza.

Gli uomini che lavoravano sotto la passerella erano impegnati nella difficile impresa di rimettere in funzione il generatore centrale. Tutti i guasti erano stati riparati, e il generatore era stato rimontato al suo posto tra i due reattori. Ma non andava ancora.

Dopo una logorante settimana di lavoro, Joe Haller aveva fatto il punto della situazione. — C’è da diventare matti. Tutto è a posto e non funziona niente.

Dan sapeva che prima o poi ne sarebbero venuti a capo, ma intanto non poteva fare a meno di chiedersi perché l’apparecchio non funzionasse, quando tutti i calcoli e le prove indicavano che era perfettamente in ordine.

Che ci sia un sabotatore nella squadra di Joe?, si chiese, guardando gli uomini al lavoro. Ma che motivo può avere? E chi può essere?

— Un messaggio per il signor Christopher — disse la voce piattamente calma dell’elaboratore agli altoparlanti d’intercomunicazione.

Di malavoglia, Dan si avviò verso l’area di comando. Le strisce di lamina magnetizzata dalle scarpe aderivano leggermente alle piastre della passerella.

Quando si chiuse la porta alle spalle, il brontolìo penetrante dei reattori svanì, lasciando il posto al più acuto ronzìo dell’attrezzatura elettrica: monitor, terminali dell’elaboratore, videoschermi. Mezza dozzina di persone, sedute ai pannelli di controllo, sorvegliavano il rendimento dei reattori e dei generatori.

Dan vide un pannello vuoto, s’infilò nella sedia e premette il pulsante del telefono. — Parla Dan Christopher — disse.

Il piccolo videoschermo sopra il pannello ebbe un guizzo, poi prese forma la faccia del dottor Hsai, atteggiata a un cortese sorriso orientale.

— Siete stato gentile a rispondere subito alla mia chiamata — disse lo psicotecnico con voce soave. — So che avete molto da fare.

Dan rispose al sorriso. — Anche voi, immagino. Avete bisogno di qualcosa?

Con espressione appena un po’ più seria, il dottor Hsai rispose: — Mi preoccupa che non vi siate più fatto vedere, signor Christopher. Abbiamo preso appuntamento per una visita tre volte ma non siete mai venuto.

Dan si strinse nelle spalle. — Come avete detto voi stesso, ho molto da fare.

— Sì, certo. Ma la salute viene prima di tutto. Se difetta quella, anche il lavoro ne risente.

— Io sto benissimo.

Il dottor Hsai annuì chiudendo gli occhi. — Può darsi. Ma non sempre un malanno si manifesta con sintomi appariscenti, visibili anche al paziente. Siete stato dimesso dall’infermeria con l’intesa che sareste tornato periodicamente a farvi visitare.

Dan sentiva la collera montargli dentro. — Sentite, dottor Hsai, io ho davvero molto da fare. Non ho né tempo né voglia di rispondere alle vostre stupide domande e di farmi scandagliare il cervello. E nessuno mi obbliga. Faccio il mio lavoro e sto bene. Non potete costringermi in nessun modo a lasciarvi pasticciare con la mia testa!

— Signor Christopher! — Il dottor Hsai era stravolto.

— E tenete presente una cosa, dottore — continuò Dan. — Stiamo decelerando verso Alpha Centauri. I reattori alimentano i motori principali secondo un programma stabilito con estrema cura. L’astronave non è in grado di reggere più di un certo carico di propulsione, modesto… non è fatta per una propulsione elevata, si spaccherebbe in due…

— Questo lo sanno tutti.

— Ah, sì? Siamo in una fase molto delicata del volo; un piccolo errore di calcolo, un impercettibile guasto ai reattori, e crepiamo tutti. Perciò vi consiglio di non seccarmi più e lasciare che mi concentri sul lavoro. Rimandiamo lo scrutamento del cervello a quando saremo sani e salvi in orbita, coi motori a razzo spenti.

— Io volevo solo…

Dan avvertiva che intorno a lui tutti avevano sospeso il lavoro e lo guardavano, ma si concentrò sullo schermo. — Non mi importa di quello che voi volete — tagliò corto seccamente. — Come non m’importa di sapere chi sta cercando motivi per sbattermi di nuovo in infermeria… fosse anche il presidente! Io continuerò a fare il mio lavoro e a farlo bene. Capito?

Il dottor Hsai annuì, serio, adesso. — Scusatemi per avere interrotto il vostro importante lavoro — disse.

Poi sfiorò il pulsante del videofono dalla sua parte, e dopo che la faccia di Dan Christopher fu svanita dallo schermo, rimase a lungo seduto, con gli occhi chiusi e le labbra increspate.

VII

Al livello 1 era notte fonda. Il dottor Loring saliva lentamente la lunga spirale di gradini metallici che portavano all’osservatorio nel mozzo dell’astronave. I tubi che collegavano i livelli più lontani dal centro avevano scale a energia, e si poteva salire senza fatica, semplicemente pigiando un pulsante. Molti, ora che il generatore centrale non funzionava e l’energia elettrica scarseggiava, usavano i gradini, ma il dottor Loring considerava suo privilegio personale usare le scale a energia.

Ma verso il centro, dal livello 4 in avanti, era tutto lavoro di muscoli. Niente scale a energia, solo una interminabile serie di gradini metallici. Era dura, per un vecchio con tanti chili addosso, anche se a quei livelli la gravità diminuiva rapidamente. Loring sudava e borbottava tra sé. Nei tunnel c’era buio quasi completo: erano accese solo le luci d’emergenza, deboli e molto distanti una dall’altra.

Arrivato al settimo livello, Loring si fermò a riprendere fiato. Sapeva che da metà dell’ultimo tunnel sarebbe andato avanti fluttuando, senza quasi toccare i gradini. Poteva concedersi un po’ di riposo.

Il portello alla sua sinistra si apriva sugli uffici del gruppo Propulsione e Potenza, quello a destra portava ai reattori. Niente a che fare con lui: con uno sforzo, ricominciò a salire, lasciandosi dietro il livello 7.

— Insonnia, dannazione dei vecchi — borbottò. — Potrei essere nel mio letto a dormire pacifico, e invece sono qua a vagare nel buio, guastandomi il cuore e lo stomaco.

Cominciava ad avvertire l’assenza di peso. E sebbene fosse salito all’osservatorio un’infinità di volte, i primi dieci minuti di gravità zero, o quasi, gli mettevano regolarmente lo stomaco sottosopra. Era come cadere, cadere senza fine. Un impulso primitivo lo spingeva a urlare, e il suo stomaco reclamava decisamente qualcosa di più solido.

Se almeno ci fosse un po’ di luce, pensò. Coi piedi che non toccavano più i gradini e fluttuavano nel vuoto, si aggrappò alla ringhiera della scala, per mantenere almeno il senso dell’alto e del basso e procedendo come un nuotatore attaccato a una fune si spinse avanti finché non urtò con la testa contro un portello. Imprecando sottovoce, aprì il portello manualmente (i comandi automatici erano stati disattivati) ed entrò fluttuando nell’osservatorio.